Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1927-1943)

Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1927-1943)

Il Tribunale speciale ebbe il potere di processare il dissenso al regime: diffidare, ammonire, sottoporre a «vigilanza speciale» o condannare a pene detentive (carcere e/o confino) chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza del regime fascista.

A subire feroci condanne e odiosi maltrattamenti furono quindi tutti gli oppositori politici: persone comuni, ma più spesso dirigenti e militanti comunisti, socialisti, appartenenti a Giustizia e Libertà, anarchici, liberali, repubblicani, irredentisti sloveni e croati, resistenti libici e somali, ecc.

Il Tribunale speciale entrò in carica il 4 gennaio 1927 e divenne subito operante. Nonostante fosse stato concepito come strumento di giustizia politica straordinaria, destinato a esaurirsi in un quinquennio con l’annichilimento delle opposizioni, il Tribunale speciale venne invece continuamente prorogato e diventò uno dei simboli del regime. Fu, infatti, soppresso il 29 luglio 1943 (con d.l. n. 668) per essere poi ricostituito nel gennaio del 1944 nei territori della Repubblica Sociale Italiana.

Composizione e funzionamento

Il Tribunale speciale era costituito da un Presidente – scelto tra i generali della Marina, dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) (vedi testo in Promemoria), – e da cinque giudici espressi dalla Milizia e operò seguendo le norme del Codice penale militare in tempo di guerra: arresto obbligatorio, sentenza immediatamente esecutiva e inappellabile. 

La strategia repressiva si articolava in varie fasi: indagini su base provinciale della polizia segreta fascista (OVRA – Organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo) (vedi testo in Promemoria), che portavano a una serie di arresti; prolungate carcerazioni preventive in condizioni durissime in attesa dei processi; proscioglimenti in istruttoria per i casi meno gravi (gli assolti erano comunque affidati al controllo costante della polizia), processi-lampo con condanne dai 2 ai 10 anni per i «semplici militanti» e dai 15 ai 20 per i «dirigenti». 

I detenuti in attesa di giudizio ignoravano sia i capi d’accusa, sia le prove a carico. La posizione dei latitanti veniva stralciata: li si processava dopo la cattura, anche ad anni di distanza. Le condanne comportavano pene accessorie: il sequestro dei beni, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, anni di sorveglianza speciale da parte degli organi di polizia. I detenuti politici, una volta espiata la pena in carcere, venivano generalmente assegnati al confino, a meno che non si fossero “ravveduti”, ovvero impegnati ad astenersi da qualsiasi attività politica. Il deferimento al Tribunale speciale, a prescindere dagli esiti processuali, equivaleva alla morte civile: le persone coinvolte subivano uno stigma che rendeva loro difficile inserirsi nuovamente nella società dell’epoca.

Nell’Italia trasformata in Stato di polizia, con lo sgretolamento di ogni forma di diritto riconosciuto ai cittadini, il Tribunale speciale rafforzava la dittatura, incarcerando il dissenso.

L’ondata repressiva del 1926-1930 riusciva, infatti, a scompaginare l’antifascismo organizzato: il Tribunale speciale impostava maxiprocessi, con decine di imputati arrestati, celebrati in rapida successione. Nel 1928, ad esempio, Altiero Spinelli fu condannato a sedici anni e otto mesi di carcere per ricostituzione del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) e propaganda comunista, (aveva 20 anni); nel cosiddetto “processone” ai membri del Comitato centrale del Pcd’I furono condannati, tra gli altri, Umberto Terracini a ventidue anni e nove mesi, Antonio Gramsci e Mauro Scoccimarro a vent’anni e quattro mesi; nello stesso anno anche Giancarlo Pajetta subì, ad appena diciassette anni, la sua prima condanna a due anni di carcere, (altra ben più dura- dieci anni e sei mesi – seguiva nel 1934); nel 1929 toccò a Sandro Pertini essere condannato a dieci anni e nove mesi per attività sovversiva; nel 1930, fu la volta di Camilla Ravera, di Manlio Rossi-Doria, di Emilio Sereni condannati a quindici anni per ricostituzione del Partito comunista.

All’inizio degli anni Trenta venivano celebrati numerosi processi contro attivisti di Giustizia e Libertà, movimento politico d’opposizione formatosi nel 1929-1930: nel 1931 venivano condannati, tra gli altri, Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi a vent’anni di reclusione per attentato all’ordine costituzionale; nel 1934 Leone Ginsburg (quattro anni di carcere e cinque di interdizione ai pubblici uffici); nel 1936 Vittorio Foa (quindici anni per associazione e propaganda sovversiva,), Michele Giua (quindici anni), Massimo Mila (sette anni); nel 1937 Aligi Sassu (10 anni per attività sovversiva).

Nello stesso periodo aumentavano i procedimenti per spionaggio, in particolare contro veri o presunti agenti dei servizi segreti francesi e iugoslavi, con un’impennata nel 1935-36 in corrispondenza della guerra contro l’Etiopia. 

Le condanne per gli antifascisti si inasprivano nuovamente nell’inverno 1937-38, per l’infiltrazione comunista nei sindacati, che aveva l’obiettivo di alimentare lo scontento nei lavoratori per i cedimenti del regime al padronato. 

Dal 1940 aumentavano esponenzialmente i procedimenti per oltraggio al Capo del governo e propaganda disfattista: i disastri militari e le condizioni degli italiani in guerra alimentavano ondate di mormorazioni, aspre critiche e giudizi negativi nei confronti del regime. Negli ultimi anni di funzionamento del Tribunale speciale si moltiplicavano le punizioni per mercato nero, traffici valutari, omicidi comuni, rapine e stupri.

Il bilancio dell’attività svolta dal Tribunale speciale

Dal febbraio 1927 al luglio 1943, il Tribunale speciale processò 5.633 imputati – condannandone 4.610. Gli anni totali di prigione inflitti furono 27.732, 42 le condanne a morte, di cui 31 eseguite, 3 gli ergastoli. 5.513 processati erano uomini, 120 le donne, 697 i minorenni. Tra le categorie professionali, 3.899 imputati erano operai e artigiani, 546 i contadini, 221 liberi professionisti, 238 commercianti, 296 impiegati, 164 studenti, 37 casalinghe. (Adriano Dal Ponte, Alfonso Leonetti, Pasquale Maiello, Lino Zocchi, Aula IV, tutti i processi del Tribunale speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961, p. 476).

Il 17 ottobre 1928 il Tribunale speciale pronunciava la sua prima sentenza di morte contro il comunista Michele Della Maggiora, bracciante toscano ritenuto responsabile dell’uccisione di due fascisti. Venne fucilato il giorno successivo.

La serie delle condanne a morte proseguiva, nel 1929, con quella del nazionalista sloveno Vladimiro Gortan. Con quattro condanne a morte si concluse, nel settembre 1930, il processo svoltosi a Trieste, contro un gruppo di irredentisti slavi, ritenuti colpevoli di atti di terrorismo (Ferdinando Bidovec, Francesco Marussich, Luigi Valente, Zvonimiro Milos). Seguirono ancora, nel 1931, la condanna a morte dell’anarchico Michele Schirru, colpevole di aver avuto l’intenzione di uccidere Mussolini; nel 1932 quella dell’anarchico Angelo Sbardelotto, reo di avere avuto l’intenzione di attentare alla vita del Duce e di Domenico Bovone, un industriale torinese imputato di attentati dinamitardi. Durante la guerra vennero pronunciate 33 sentenze di condanne a morte, di cui ventidue eseguite, per fatti direttamente connessi ad essa (spionaggio, furto aggravato, ecc.) ma soprattutto per azioni partigiane ad opera di patrioti slavi operanti in Venezia Giulia.

Il confino

All’indomani dell’unificazione nazionale fu istituito un provvedimento transitorio contro il
brigantaggio denominato «domicilio coatto», legalizzato poi con la legge Pica nel 1863.
Nei decenni successivi venne sempre più utilizzato come strumento di repressione del
dissenso politico e sociale. Fu infatti ufficialmente reintrodotto nell’ordinamento giuridico –
con la denominazione «confino di polizia» – dal regime fascista nel 1926.
Il confino diventò un’arma insostituibile per il regime: allontanava gli antifascisti militanti dai
luoghi di residenza per anni, isolandoli e sottoponendoli a continua sorveglianza, evitando
eclatanti azioni repressive che avrebbero danneggiato l’immagine del nuovo Stato fascista
e che, allo stesso tempo, avrebbero dimostrato quanto il dissenso fosse tutt’altro che
soffocato.
I luoghi preposti per l’esilio furono le isole di Lampedusa, Favignana, Ustica, Ponza, Lipari,
Pantelleria, Tremiti, Ventotene e sperduti paesi della Basilicata, della Calabria e della
Sicilia, scelti per l’isolamento che favoriva la sorveglianza, per la scarsa densità abitativa e
per la minore politicizzazione della popolazione. Qui – in località inospitali e povere, prive
di infrastrutture (fognature, ospedali, strade, scuole), in zone spesso malariche – il regime
relegò, insieme ai dissidenti politici, altri soggetti ritenuti “pericolosi: Testimoni di Geova,
Pentecostali, esponenti della Chiesa Battista (in quanto rappresentanti di un culto difforme
dal cattolicesimo di Stato), omosessuali (la cui repressione si inquadrava nel quadro della
politica demografica del regime e del concetto dell’«uomo nuovo fascista»), “sudditi” delle
colonie africane, albanesi, slavi e alcuni fascisti dissidenti.
Vennero condannati al confino uomini come Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Umberto
Terracini, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Girolamo
Li Causi, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Emilio Lussu, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi,
Altiero Spinelli, Leo Valiani, uomini che guidarono la Resistenza dopo il 1943, che
ricoprirono incarichi di governo ed ebbero ruoli di primo piano nella vita politica del paese
nel dopoguerra.
Attraverso l’esperienza del confino passarono anche Carlo Rosselli, Guido Picelli, Eugenio
Curiel, Eugenio Colorni, Leone Ginsburg (caduti nella lotta contro il fascismo); intellettuali
come Augusto Monti, Franco Venturi, Manlio Rossi-Doria, Franco Antonicelli, Massimo
Mila; scrittori come Carlo Levi e Cesare Pavese i cui libri (Cristo si è fermato a Eboli e
Prima che il gallo canti) hanno contribuito a far conoscere il prezzo pagato da quanti si
sono opposti al regime.
Motivazioni per l’assegnazione al confino
I principali motivi per i quali veniva comminata l’assegnazione al confino sono riconducibili
alle diverse manifestazioni di dissenso al fascismo: appartenere a partiti di opposizione,
simpatizzare per idee contrarie al regime, svolgere attività antifascista, essere sospettato
di alto tradimento, fare contropropaganda, diffondere materiale vietato, tentare la
ricostituzione di partiti e associazioni disciolte.
Anche ex condannati che avevano terminato di scontare la pena inflitta dal Tribunale
speciale o che, per mancanza o insufficienza di prove, erano stati assolti o prosciolti in
istruttoria subivano non di rado il confino che per loro funzionava come una pena
complementare, aggiuntiva o sostitutiva.

PROMEMORIA Capitolo 2. Il regime fascista 1923-1939
Una nuova detenzione – o il suo prolungamento – poteva essere giustificata in base a un
giudizio di persistente pericolosità di un ex confinato. Per questo motivo il provvedimento
di polizia non era solo preventivo ma funzionava di fatto anche come misura di sicurezza.
Anche i precedenti politici (o ciò che era stato commesso prima dell’avvento del regime)
potevano essere motivo sufficiente per essere esiliato; il confino in questo caso finiva per
avere un carattere di pena retroattiva.
Potevano giustificare l’imposizione del provvedimento anche ragioni banali come
raccontare una barzelletta su Mussolini, fare affermazioni poco prudenti nei confronti del
governo fascista, rifiutarsi di rispondere al saluto fascista, atti che corrispondevano a reati
quali «offese al capo dello Stato» e «disfattismo verso lo Stato».
Altre motivazioni, che avevano attinenza con ambiti e atteggiamenti privati, portarono
molte donne al confino: non aderire ai modelli femminili imposti dai fascisti, essere
sospettate di praticare aborti o di diffondere metodi contraccettivi, avere relazioni sessuali
fuori del matrimonio erano comportamenti che, turbando la morale o le direttive
demografiche volute dal regime, venivano duramente puniti.
L’assegnazione al confino
Le prime assegnazioni (da 1 a 5 anni, rinnovabili se il confinato fosse ritenuto ancora
“pericoloso”) venivano disposte a metà del novembre 1926.
Un mese più tardi, il numero dei confinati concentrati alle isole di Ustica, Favignana, Lipari,
Pantelleria, Lampedusa e Tremiti superava i 600; a fine anno i confinati erano 900, in
parte disseminati nei villaggi dell’Italia meridionale.
La prima ondata di invii al confino riguardò comunisti (Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci),
socialisti (Giuseppe Massarenti, Giuseppe Romita), repubblicani (Mario Angeloni,
Ferruccio Parri), anarchici (Gino Bibbi, Luigi Galleani), indipendenti (il capitano Giuseppe
Giulietti) e alcuni liberaldemocratici affiliati alla massoneria (Roberto Bencivenga, Domizio
Torreggiani).
Negli anni Trenta iniziarono ad affluire nei luoghi di confine numerosi membri di Giustizia e
Libertà, nonostante la presenza dei comunisti rimanesse preponderante.
Lo scoppio della guerra civile in Spagna rianimò gli oppositori e il numero dei confinati
aumentò (2.627 nel novembre 1937) nel quadro di una repressione più rigorosa. Nel 1939-
1940 le forze di occupazione tedesche rimpatriarono coattivamente dalla Francia centinaia
di antifascisti italiani che avevano combattuto nelle Brigate internazionali durante la guerra
civile spagnola: essi furono regolarmente assegnati al confino.
Dal novembre 1926 al luglio 1943 il numero totale dei dissidenti esiliati si aggirò attorno
alle 17.000 unità.
Il 26 luglio 1943, avuta notizia della caduta di Mussolini, i confinati cominciarono a
richiedere la liberazione generale, ma il nuovo governo badogliano solo dalla metà di
agosto dispose il loro rilascio.
L’identità dei confinati
Al confino erano rappresentati tutti i partiti politici antifascisti.
A Lipari, per esempio, nel 1930 su 350 confinati più della metà erano qualificati
«comunisti», meno del 15% «anarchici», meno del 10% «socialisti». Il resto –
genericamente definiti come «antifascisti», rei di aver recato offesa al capo dello stato,
sovversivi, antinazionali, federalisti, repubblicani – costituiva meno del 3%.

PROMEMORIA Capitolo 2. Il regime fascista 1923-1939
Quanto all’origine sociale, la maggioranza dei condannati apparteneva a classi umili: a
Ponza e a Lipari nel 1930 più del 70% erano operai e lavoratori manuali, appena il 10%
erano impiegati, poco più del 7% erano intellettuali, membri della media borghesia,
studenti, liberi professionisti, tra cui spiccavano gli avvocati.
Sempre a Lipari quasi la metà proveniva dal Nord, poco meno del 40% dal Centro, poco
più del 10% dal Sud. Forte era la presenza di antifascisti originari delle storiche regioni
rosse: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Marche.
L’età dei confinati era mediamente bassa: i ventenni e i trentacinquenni costituivano la
maggioranza. (Dati in Camilla Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime,
Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 36-37).
Vita al confino
Le condizioni di vita dei confinati erano spesso avvilenti. Venivano fatti alloggiare in
cameroni comuni, spesso di dimensioni insufficienti ad accoglierli: androni umidi, bui, poco
ventilati e ricolmi di pagliericci e qualche piolo per attaccarvi i panni. In questi ambienti gli
oppositori politici venivano rinchiusi anche per quindici ore al giorno.
In qualche caso era possibile ottenere la sistemazione in un’abitazione privata,
specialmente ai condannati cui era consentito vivere con la famiglia ma la situazione non
era migliore. Molto spesso le abitazioni: «erano addirittura delle spelonche: una sola
stanza, senza luce, senza acqua, senza latrina, senza nulla; le pareti senza intonaco, un
finestrino in alto con l’inferriata, attraverso il quale entrava l’aria e usciva il fumo; per
pavimento la nuda terra». (Giuseppe Scalarini, Le mie isole, a cura di Mario De Micheli,
Milano, Franco Angeli, 1992, p. 77).
L’alimentazione non era delle migliori, l’acqua non era potabile e bisognava bollirla, quella
bevibile era venduta a caro prezzo. Frutta, verdura e carne scarseggiavano o erano di
cattiva qualità. Il vitto non era vario: a pranzo e a cena veniva dato un minestrone, una
volta o due al mese era concessa la pasta e per secondo, legumi o insalata scondita, o
formaggio, o frutta, anche il pane non abbondava. (In isole in cui anche gli stessi abitanti
avevano problemi per il proprio sostentamento, l’improvvisa richiesta di cibo per i
prigionieri non riusciva ad essere soddisfatta).
Le opportunità di lavoro erano pressoché inesistenti e i confinati che non disponevano di
risorse proprie vivevano in condizioni di grave indigenza, che il sussidio dato loro dal
regime (10 lire, ridotte poi a 5 dopo il 1929) non poteva certo risolvere.
Spesso mancavano i capi di abbigliamento pesanti per proteggersi dai rigori del freddo,
l’essenziale per vivere. Si arrivava «al punto, per bere, di far bollire l’acqua salata, di far
cuocere per nutrirsi le foglie dei fichi d’India». (Ada Gobetti, Camilla Ravera: vita in carcere
e al confino con lettere e documenti, Parma, Guanda, 1969, pp. 101-102).
I confinati dovevano sopportare profondi disagi anche per le condizioni igieniche: in
situazioni di promiscuità e in ambienti ristretti, la scarsità, talvolta la totale mancanza di
igiene, facilitava il moltiplicarsi di infezioni e malattie: tubercolosi, malaria, gastroenteriti,
deperimenti organici, artriti, polmoniti, ecc. La diffusione delle patologie era dovuta anche
al clima malsano, a una assistenza sanitaria assai carente, alla scarsità di farmaci.
Quali fossero le condizioni di vita che dovettero subire gli antifascisti è dimostrato dal
numero dei morti: furono 177, pari all’1,25%: una percentuale alta se si considera che la
loro età media si aggirava attorno ai trenta-quaranta anni. (Mimmo Franzinelli, Confino di
polizia, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, Torino,
Einaudi, 2002, I vol., 347)

PROMEMORIA Capitolo 2. Il regime fascista 1923-1939
Oltre alle condizioni materiali, ciò che rendeva la vita difficile e quasi insopportabile era
l’arbitrio: «Non la legge dura, ma il non rispetto della legge, il sopruso, il malvolere,
l’estrosità di chi la legge deve fare rispettare. Il confinato è alla mercè non soltanto del
commissario e del vicecommissario, ma dell’ufficio politico, di ogni agente, di ogni milite».
(Alberto Jacometti, Ventotene, Genova, Frilli editore, 2004, prima edizione 1946).
La permanenza nelle isole era scandita da rigidi orari, dagli appelli quotidiani, dalla
distribuzione del sussidio giornaliero, dalla consegna della posta censurata, dalle
perquisizioni, da brutali aggressioni. Talora si pagava con la morte un gesto di protesta o
un atteggiamento di fierezza: il meccanico comunista Giuseppe Filiplich di Pistino (Istria)
moriva a Lipari in seguito alle percosse subite dalla Milizia (Alessandro Pagano, Il confino
politico a Lipari, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 167).
Gli oppositori ritenuti più pericolosi venivano poi assoggettati al pedinamento asfissiante
dei militi fascisti che li seguivano in ogni momento della giornata e li sottoponevano a
stretta sorveglianza anche durante le ore notturne e richieste di permessi, domande per
poter ricevere visite e controlli sulla posta diventavano occasioni di «meschine angherie»,
gratuite crudeltà, soprusi volti a «umiliare e deprimere» (Riccardo Bauer, Introduzione a
Ernesto Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia, Lettere da Ventotene 1939-1943,
a cura di Manlio Magini, Milano, Feltrinelli, 1981.)
Quello che il regime voleva ottenere dai confinati era uno stato di totale dipendenza, di
sottomissione, di avvilimento.
Alla volontà opprimente di controllo, gli antifascisti opponevano la difesa della propria
identità e autonomia, realizzando una sorta di comunità alternativa, con reti di aiuto
reciproco, con regole e forme di socialità proprie. Crearono mense, biblioteche, spacci di
generi alimentari, organizzarono corsi di istruzione, gruppi di studio, celebrarono le proprie
festività.
Protestarono collettivamente – scioperi della fame, autoconsegna nei cameroni,
restituzione collettiva della carta di permanenza – in segno di solidarietà con i compagni
maltrattati, per l’assunzione del controllo su mense e biblioteche da parte delle direzioni
delle colonie, contro il divieto di affittare alloggi privati, contro l’imposizione del saluto
romano.
Non senza motivo, l’esperienza confinaria è stata più volte ricordata come la palestra
politica in cui si formarono i futuri quadri della Resistenza.

Gli strumenti dello Stato fascista

per il controllo e la repressione del dissenso

Il nuovo Stato totalitario fu costruito intorno a un principio cardine: la cancellazione delle libertà (politiche, sindacali, di stampa) e la repressione di chiunque non si adeguasse alle direttive del fascismo.

Ogni forma di opposizione politica organizzata venne eliminata ex lege e lo Stato fascista si fornì degli strumenti normativi atti a prevenire e reprimere ogni attività volta a contrastare il monopolio fascista del potere.

Il primo passo in tal senso fu compiuto con l’emanazione del «Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza» (Regio Decreto n. 1848 del 6 novembre 1926) in base al quale venne soppressa la libertà di stampa, furono sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non allineati col regime, dichiarati decaduti i parlamentari e venne istituito il confino di polizia anche per i reati politici.

La realizzazione e il funzionamento del nuovo apparato repressivo venne stabilito, invece, con la legge n. 2008 «Provvedimenti per la difesa dello Stato», entrata in vigore il 25 novembre 1926. Con essa qualsiasi forma di opposizione al regime venne considerata «delitto contro lo Stato» e duramente punita. (vedi testo «Leggi fascistissime» in Promemoria). 

La disposizione reintroduceva la pena di morte per chi attentava alla vita dei regnanti e del Capo del governo, cospirava contro l’unità e l’indipendenza nazionale, svelava segreti militari e scatenava l’insurrezione contro i poteri dello Stato. Contemplava pene detentive da uno a trent’anni per le attività politiche antifasciste, tra le quali la ricostituzione di organismi politici contrari al regime e la propaganda «dannosa per il credito e il prestigio dello Stato». Stabiliva poi la reclusione da cinque a quindici anni – accompagnata dall’interdizione permanente dei pubblici uffici, dalla confisca dei beni e dalla perdita della cittadinanza – per coloro che all’estero si impegnassero in propaganda avversa al regime. Al fine di giudicare i reati in essa previsti, la nuova legge all’art. 7 istituiva il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. 

Educare alla violenza tra scuola, organizzazioni giovanili e tempo libero

Il fascismo, una volta al potere, cercò di organizzare l’educazione e il tempo libero dell’infanzia e della gioventù, introducendo elementi ideologici che dovevano essere a fondamento dell’«uomo nuovo fascista»: obbedienza, senso della gerarchia, orgoglio nazionale, bellicismo, virilità. Si trattava di lavorare sull’educazione per assicurare la continuità del progetto mussoliniano, accompagnando le future generazioni di adulti in un percorso di crescita controllato dal regime.

Tra gli altri aspetti che caratterizzarono questo tentativo totalitario rivolto all’educazione vorremmo qui analizzarne in particolare due, strettamente intrecciati: quello della violenza e quello dell’esaltazione della vita militare.

Per farlo non useremo una prospettiva cronologica, piuttosto proveremo ad analizzare, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, gli elementi funzionali a promuovere l’importanza dell’identità bellica dei nuovi italiani all’interno del complesso sistema dell’educazione, della formazione, del tempo libero dei giovani e delle giovani.

Alcuni elementi il fascismo li aveva ereditati dal passato, mantenendoli o incrementandoli, altri li introdusse ex novo trasformando il mondo dell’infanzia in prospettiva dell’educazione del nuovo italiano, del giovane fascista o della giovane fascista in formazione.

Su questo argomento proporremo tre approfondimenti.

Il primo riguarda la scuola vera e propria, le materie, i contenuti che passarono attraverso nuovi programmi e nuovi libri.

La seconda dimensione è quella del tempo libero “colonizzato” dal fascismo con l’organizzazione dell’Opera nazionale balilla.

Il terzo approfondimento è sul tempo libero nella dimensione non direttamente organizzata dal regime, esemplificato dalle letture di svago.