Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1927-1943)
Il Tribunale speciale ebbe il potere di processare il dissenso al regime: diffidare, ammonire, sottoporre a «vigilanza speciale» o condannare a pene detentive (carcere e/o confino) chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza del regime fascista.
A subire feroci condanne e odiosi maltrattamenti furono quindi tutti gli oppositori politici: persone comuni, ma più spesso dirigenti e militanti comunisti, socialisti, appartenenti a Giustizia e Libertà, anarchici, liberali, repubblicani, irredentisti sloveni e croati, resistenti libici e somali, ecc.
Il Tribunale speciale entrò in carica il 4 gennaio 1927 e divenne subito operante. Nonostante fosse stato concepito come strumento di giustizia politica straordinaria, destinato a esaurirsi in un quinquennio con l’annichilimento delle opposizioni, il Tribunale speciale venne invece continuamente prorogato e diventò uno dei simboli del regime. Fu, infatti, soppresso il 29 luglio 1943 (con d.l. n. 668) per essere poi ricostituito nel gennaio del 1944 nei territori della Repubblica Sociale Italiana.
Composizione e funzionamento
Il Tribunale speciale era costituito da un Presidente – scelto tra i generali della Marina, dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) (vedi testo in Promemoria), – e da cinque giudici espressi dalla Milizia e operò seguendo le norme del Codice penale militare in tempo di guerra: arresto obbligatorio, sentenza immediatamente esecutiva e inappellabile.
La strategia repressiva si articolava in varie fasi: indagini su base provinciale della polizia segreta fascista (OVRA – Organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo) (vedi testo in Promemoria), che portavano a una serie di arresti; prolungate carcerazioni preventive in condizioni durissime in attesa dei processi; proscioglimenti in istruttoria per i casi meno gravi (gli assolti erano comunque affidati al controllo costante della polizia), processi-lampo con condanne dai 2 ai 10 anni per i «semplici militanti» e dai 15 ai 20 per i «dirigenti».
I detenuti in attesa di giudizio ignoravano sia i capi d’accusa, sia le prove a carico. La posizione dei latitanti veniva stralciata: li si processava dopo la cattura, anche ad anni di distanza. Le condanne comportavano pene accessorie: il sequestro dei beni, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, anni di sorveglianza speciale da parte degli organi di polizia. I detenuti politici, una volta espiata la pena in carcere, venivano generalmente assegnati al confino, a meno che non si fossero “ravveduti”, ovvero impegnati ad astenersi da qualsiasi attività politica. Il deferimento al Tribunale speciale, a prescindere dagli esiti processuali, equivaleva alla morte civile: le persone coinvolte subivano uno stigma che rendeva loro difficile inserirsi nuovamente nella società dell’epoca.
Nell’Italia trasformata in Stato di polizia, con lo sgretolamento di ogni forma di diritto riconosciuto ai cittadini, il Tribunale speciale rafforzava la dittatura, incarcerando il dissenso.
L’ondata repressiva del 1926-1930 riusciva, infatti, a scompaginare l’antifascismo organizzato: il Tribunale speciale impostava maxiprocessi, con decine di imputati arrestati, celebrati in rapida successione. Nel 1928, ad esempio, Altiero Spinelli fu condannato a sedici anni e otto mesi di carcere per ricostituzione del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) e propaganda comunista, (aveva 20 anni); nel cosiddetto “processone” ai membri del Comitato centrale del Pcd’I furono condannati, tra gli altri, Umberto Terracini a ventidue anni e nove mesi, Antonio Gramsci e Mauro Scoccimarro a vent’anni e quattro mesi; nello stesso anno anche Giancarlo Pajetta subì, ad appena diciassette anni, la sua prima condanna a due anni di carcere, (altra ben più dura- dieci anni e sei mesi – seguiva nel 1934); nel 1929 toccò a Sandro Pertini essere condannato a dieci anni e nove mesi per attività sovversiva; nel 1930, fu la volta di Camilla Ravera, di Manlio Rossi-Doria, di Emilio Sereni condannati a quindici anni per ricostituzione del Partito comunista.
All’inizio degli anni Trenta venivano celebrati numerosi processi contro attivisti di Giustizia e Libertà, movimento politico d’opposizione formatosi nel 1929-1930: nel 1931 venivano condannati, tra gli altri, Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi a vent’anni di reclusione per attentato all’ordine costituzionale; nel 1934 Leone Ginsburg (quattro anni di carcere e cinque di interdizione ai pubblici uffici); nel 1936 Vittorio Foa (quindici anni per associazione e propaganda sovversiva,), Michele Giua (quindici anni), Massimo Mila (sette anni); nel 1937 Aligi Sassu (10 anni per attività sovversiva).
Nello stesso periodo aumentavano i procedimenti per spionaggio, in particolare contro veri o presunti agenti dei servizi segreti francesi e iugoslavi, con un’impennata nel 1935-36 in corrispondenza della guerra contro l’Etiopia.
Le condanne per gli antifascisti si inasprivano nuovamente nell’inverno 1937-38, per l’infiltrazione comunista nei sindacati, che aveva l’obiettivo di alimentare lo scontento nei lavoratori per i cedimenti del regime al padronato.
Dal 1940 aumentavano esponenzialmente i procedimenti per oltraggio al Capo del governo e propaganda disfattista: i disastri militari e le condizioni degli italiani in guerra alimentavano ondate di mormorazioni, aspre critiche e giudizi negativi nei confronti del regime. Negli ultimi anni di funzionamento del Tribunale speciale si moltiplicavano le punizioni per mercato nero, traffici valutari, omicidi comuni, rapine e stupri.
Il bilancio dell’attività svolta dal Tribunale speciale
Dal febbraio 1927 al luglio 1943, il Tribunale speciale processò 5.633 imputati – condannandone 4.610. Gli anni totali di prigione inflitti furono 27.732, 42 le condanne a morte, di cui 31 eseguite, 3 gli ergastoli. 5.513 processati erano uomini, 120 le donne, 697 i minorenni. Tra le categorie professionali, 3.899 imputati erano operai e artigiani, 546 i contadini, 221 liberi professionisti, 238 commercianti, 296 impiegati, 164 studenti, 37 casalinghe. (Adriano Dal Ponte, Alfonso Leonetti, Pasquale Maiello, Lino Zocchi, Aula IV, tutti i processi del Tribunale speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961, p. 476).
Il 17 ottobre 1928 il Tribunale speciale pronunciava la sua prima sentenza di morte contro il comunista Michele Della Maggiora, bracciante toscano ritenuto responsabile dell’uccisione di due fascisti. Venne fucilato il giorno successivo.
La serie delle condanne a morte proseguiva, nel 1929, con quella del nazionalista sloveno Vladimiro Gortan. Con quattro condanne a morte si concluse, nel settembre 1930, il processo svoltosi a Trieste, contro un gruppo di irredentisti slavi, ritenuti colpevoli di atti di terrorismo (Ferdinando Bidovec, Francesco Marussich, Luigi Valente, Zvonimiro Milos). Seguirono ancora, nel 1931, la condanna a morte dell’anarchico Michele Schirru, colpevole di aver avuto l’intenzione di uccidere Mussolini; nel 1932 quella dell’anarchico Angelo Sbardelotto, reo di avere avuto l’intenzione di attentare alla vita del Duce e di Domenico Bovone, un industriale torinese imputato di attentati dinamitardi. Durante la guerra vennero pronunciate 33 sentenze di condanne a morte, di cui ventidue eseguite, per fatti direttamente connessi ad essa (spionaggio, furto aggravato, ecc.) ma soprattutto per azioni partigiane ad opera di patrioti slavi operanti in Venezia Giulia.