La sezione «Didattica» di ProMemoria intende fornire ai docenti delle scuole secondarie strumenti per approfondire tematiche sulla storia del fascismo. I percorsi proposti, che hanno come tema portante “Le violenze del fascismo” sono tutti costruiti su materiale documentario, cioè presuppongono una didattica di tipo laboratoriale, con le studentesse e gli studenti attivi nella lettura e nell’interpretazione. Si è scelto di indagare, dunque, la dimensione della violenza fascista. Gli ambiti sono sette. Ogni ambito è aperto da un’introduzione che affronta i principali aspetti teorici, seguita da vari percorsi didattici scaricabili in Pdf. I percorsi in tutto sono 36, di seguito i link per accedere:
Autore: Michele Alinovi
Il progetto ProMemoria
Didattica – La violenza coloniale
La violenza coloniale fascista
La violenza costituisce una componente essenziale nel colonialismo. Tra Otto e Novecento, il dominio diretto da parte di potenze europee su territori e popolazioni dell’Africa e dell’Asia si è realizzato dispiegando la forza militare, lo sfruttamento economico, le coercizioni amministrative e le imposizioni culturali.
La violenza ha costituito sicuramente una parte fondamentale di questi sistemi di prevaricazione, e a sua volta in ogni singolo contesto geostorico le prevaricazioni sono state articolate in maniera diversa, modulando intensità e caratteristiche.
Questa premessa generale è necessaria come inquadramento poiché nei percorsi didattici sulle fonti che proponiamo isoleremo non solo il colonialismo italiano da quello delle altre potenze europee, ma ci concentreremo su alcuni aspetti della storia coloniale fascista. Quindi anche se non avremo agio di affrontare le caratteristiche del colonialismo delle altre potenze – pensiamo soprattutto a Inghilterra, Francia, Belgio, Olanda e Germania – dobbiamo tuttavia non dimenticare che il colonialismo italiano non costituisce certo una eccezione nell’ambito degli imperialismi europei ma una particolare articolazione.
Allo stesso tempo possiamo affermare che il colonialismo fascista mantenne molti elementi di continuità con il colonialismo dell’epoca liberale italiano, anche se si caratterizzò per un livello di violenza maggiore e soprattutto non frenata da una serie di elementi. All’epoca del primo colonialismo, infatti, l’esistenza del pluralismo politico e di un’informazione non completamente asservita alle finalità del partito al potere consentiva ancora l’esistenza di un dissenso e di una circolazione di punti di vista critici rispetto all’espansione coloniale. La presa del potere del fascismo cancellò queste possibilità e pose la nuova stagione di espansione al riparo da ogni limitazione che non fosse originata dai conflitti interni alle gerarchie di potere.
Possiamo anche aggiungere che il colonialismo del regime si caratterizzò nella storia contemporanea come l’unico colonialismo fascista (la Germania aveva perso le proprie colonie con il trattato di pace al termine della Grande guerra) e che ebbe nel proprio strumentario ideologico l’esplicita volontà di gerarchizzazione razziale» dell’umanità.
In anni in cui le altre grandi potenze coloniali avevano esaurito la propria spinta espansionistica diretta per passare al tentativo di sfruttare economicamente i territori sottomessi, il carattere ancora espansionistico e militare del progetto fascista esprime anche un ritardo rispetto allo sviluppo generale della politica delle potenze coloniali.
Semplificando possiamo dividere colonialismo fascista in tre fasi: nella prima fase – fino al 1925 – dominarono gli elementi di continuità con la gestione liberale; nella seconda fase, che si dispiegò fino al 1932, il regime era divenuto dittatura e si impegnò in una crescita di attivismo espansionista che si concretizzò nella lunga e spietata guerra di «riconquista» dell’entroterra libico di cui era stato perduto il controllo alla vigilia del primo conflitto mondiale; la terza fase fu apertamente espansionistica e fu caratterizzata dall’invasione e conquista dell’Etiopia contro la volontà della Società delle nazioni e dal varo di una normativa razzista propagandata come identità imperiale.
Abbiamo deciso di proporre l’approfondimento didattico di tre dimensioni molto diverse della violenza che caratterizzò il colonialismo fascista.
La prima invita a conoscere un aspetto particolarmente violento della guerra coloniale condotta dal fascismo; la seconda presenta aspetti delle relazioni di convivenza affettiva e sessuale tra colonizzatori e colonizzati; la terza propone di entrare nel “laboratorio virtuale” dell’antropologo italiano Lidio Cipriani per scoprire alcuni aspetti metodologici della scuola antropologica egemone dell’epoca in Italia.
Didattica – I provvedimenti di internamento per ebrei
I provvedimenti di internamento per ebrei italiani e stranieri
L’istituto dell’internamento è un provvedimento restrittivo della libertà di una persona, una misura di sicurezza interna e militare che, in caso di conflitto, ogni Stato ha il potere di mettere in atto nei confronti di stranieri di nazioni nemiche residenti nel suo territorio; è regolato da leggi internazionali e prevede l’allontanamento degli individui ritenuti «pericolosi nelle contingenze belliche» da zone del paese considerate militarmente importanti, e il conseguente invio in località dove sia facile esercitarne la sorveglianza.
Questo provvedimento, ritenuto quindi una logica conseguenza delle misure legislative prese da uno Stato in caso di conflitto, venne tuttavia alterato, nelle sue finalità e concezioni di fondo, dal regime fascista in quanto, allo scoppio della seconda guerra mondiale, fu esteso anche e soprattutto nei confronti di cittadini italiani ritenuti pericolosi per le loro idee politiche contrarie al regime e in questa categoria vennero compresi anche tutti gli ebrei stranieri e quelli italiani, considerati «capaci di attività di spionaggio, di sabotaggio» e di «propaganda disfattista». Le misure di internamento, quindi, assunsero una netta connotazione antiebraica e si legarono strettamente alla politica razzista portata avanti dal regime.
In base a questa ordinanza, dunque, oltre 6.000 ebrei stranieri e circa 350-400 italiani vennero arrestati e imprigionati nei circa cinquanta campi di internamento che si trovavano per lo più nelle regioni centro-meridionali, scelte per la lontananza da centri di importanza militare, per la scarsa densità abitativa e per la minore politicizzazione della popolazione. I maggiori furono quelli di Ferramonti di Tarsia (in provincia di Cosenza), Campagna (in provincia di Salerno) e Civitella del Tronto (in provincia di Teramo).
Per quanto riguarda gli ebrei stranieri avrebbero dovuto essere internati, secondo il principio internazionalmente accettato, solo quelli appartenenti a nazionalità nemica – come, ad esempio, i francesi – mentre venne disposto l’arresto anche dei cittadini di nazioni alleate, come i tedeschi. Vennero fermati anche se in possesso di permessi di soggiorno e di passaporti validi (non furono risparmiate nemmeno le donne) e messi, prima di tutto, in carcere insieme ai delinquenti comuni, dove soggiornavano in attesa di essere destinati ai vari campi di internamento.
La precettazione al lavoro obbligatorio (maggio 1942)
L’ennesima disposizione ministeriale persecutoria venne emanata il 6 maggio 1942: la cosiddetta «precettazione obbligatoria a scopo di lavoro» in base alla quale gli ebrei, di ambo i sessi, compresi fra i 18 e i 55 anni dovevano essere avviati al lavoro coatto; per i trasgressori era previsto l’arresto e la denuncia ai tribunali militari. Di fatto, furono costretti a svolgere esclusivamente lavori manuali, separati dai lavoratori «ariani», e a ricevere paghe inferiori a parità di mansione.
I campi di concentramento voluti dal duce (primavera-estate 1943)
Nella primavera-estate del 1943, quindi ben prima dell’occupazione nazista, avvenne un vero e proprio «salto di qualità» nella persecuzione attuata dal regime: furono, infatti, programmati campi di concentramento per il lavoro forzato degli ebrei dai 18 ai 36 anni, di ambo i sessi, da istituire in Veneto, Lombardia, Piemonte e Lazio. Questa gravissima misura corrispondeva alla revoca della libertà personale, alla rottura di nuclei familiari, allo schiavismo giuridico ed economico, alla deportazione interna. Soltanto la caduta del regime fascista bloccò la realizzazione di una disposizione normativa, completamente articolata in ogni suo aspetto, che avrebbe consentito il concentramento di 9.146 ebrei, secondo quanto riportato in un prospetto della Demorazza.
Didattica – Gli strumenti dello Stato fascista
Gli strumenti dello Stato fascista per il controllo e la repressione del dissenso
Il nuovo Stato totalitario fu costruito intorno a un principio cardine: la cancellazione delle libertà (politiche, sindacali, di stampa) e la repressione di chiunque non si adeguasse alle direttive del fascismo.
Ogni forma di opposizione politica organizzata venne eliminata ex lege e lo Stato fascista si fornì degli strumenti normativi atti a prevenire e reprimere ogni attività volta a contrastare il monopolio fascista del potere.
Il primo passo in tal senso fu compiuto con l’emanazione del «Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza» (Regio Decreto n. 1848 del 6 novembre 1926) in base al quale venne soppressa la libertà di stampa, furono sciolti tutti i partiti e le associazioni sindacali non allineati col regime, dichiarati decaduti i parlamentari e venne istituito il confino di polizia anche per i reati politici.
La realizzazione e il funzionamento del nuovo apparato repressivo venne stabilito, invece, con la legge n. 2008 «Provvedimenti per la difesa dello Stato», entrata in vigore il 25 novembre 1926. Con essa qualsiasi forma di opposizione al regime venne considerata «delitto contro lo Stato» e duramente punita. (vedi testo «Leggi fascistissime» in Promemoria).
La disposizione reintroduceva la pena di morte per chi attentava alla vita dei regnanti e del Capo del governo, cospirava contro l’unità e l’indipendenza nazionale, svelava segreti militari e scatenava l’insurrezione contro i poteri dello Stato. Contemplava pene detentive da uno a trent’anni per le attività politiche antifasciste, tra le quali la ricostituzione di organismi politici contrari al regime e la propaganda «dannosa per il credito e il prestigio dello Stato». Stabiliva poi la reclusione da cinque a quindici anni – accompagnata dall’interdizione permanente dei pubblici uffici, dalla confisca dei beni e dalla perdita della cittadinanza – per coloro che all’estero si impegnassero in propaganda avversa al regime. Al fine di giudicare i reati in essa previsti, la nuova legge all’art. 7 istituiva il Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Didattica – Educare alla violenza
Educare alla violenza tra scuola, organizzazioni giovanili e tempo libero
Il fascismo, una volta al potere, cercò di organizzare l’educazione e il tempo libero dell’infanzia e della gioventù, introducendo elementi ideologici che dovevano essere a fondamento dell’«uomo nuovo fascista»: obbedienza, senso della gerarchia, orgoglio nazionale, bellicismo, virilità.
Si trattava di lavorare sull’educazione per assicurare la continuità del progetto mussoliniano, accompagnando le future generazioni di adulti in un percorso di crescita controllato dal regime.
Tra gli altri aspetti che caratterizzarono questo tentativo totalitario rivolto all’educazione vorremmo qui analizzarne in particolare due, strettamente intrecciati: quello della violenza e quello dell’esaltazione della vita militare.
Per farlo non useremo una prospettiva cronologica, piuttosto proveremo ad analizzare, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, gli elementi funzionali a promuovere l’importanza dell’identità bellica dei nuovi italiani all’interno del complesso sistema dell’educazione, della formazione, del tempo libero dei giovani e delle giovani.
Alcuni elementi il fascismo li aveva ereditati dal passato, mantenendoli o incrementandoli, altri li introdusse ex novo trasformando il mondo dell’infanzia in prospettiva dell’educazione del nuovo italiano, del giovane fascista o della giovane fascista in formazione.
Su questo argomento proporremo tre approfondimenti.
Il primo riguarda la scuola vera e propria, le materie, i contenuti che passarono attraverso nuovi programmi e nuovi libri.
La seconda dimensione è quella del tempo libero “colonizzato” dal fascismo con l’organizzazione dell’Opera nazionale balilla.
Il terzo approfondimento è sul tempo libero nella dimensione non direttamente organizzata dal regime, esemplificato dalle letture di svago.
Didattica – Il confino
Il confino
All’indomani dell’unificazione nazionale fu istituito un provvedimento transitorio contro il brigantaggio denominato «domicilio coatto», legalizzato poi con la legge Pica nel 1863. Nei decenni successivi venne sempre più utilizzato come strumento di repressione del dissenso politico e sociale. Fu infatti ufficialmente reintrodotto nell’ordinamento giuridico – con la denominazione «confino di polizia» – dal regime fascista nel 1926.
Il confino diventò un’arma insostituibile per il regime: allontanava gli antifascisti militanti dai luoghi di residenza per anni, isolandoli e sottoponendoli a continua sorveglianza, evitando eclatanti azioni repressive che avrebbero danneggiato l’immagine del nuovo Stato fascista e che, allo stesso tempo, avrebbero dimostrato quanto il dissenso fosse tutt’altro che soffocato.
I luoghi preposti per l’esilio furono le isole di Lampedusa, Favignana, Ustica, Ponza, Lipari, Pantelleria, Tremiti, Ventotene e sperduti paesi della Basilicata, della Calabria e della Sicilia, scelti per l’isolamento che favoriva la sorveglianza, per la scarsa densità abitativa e per la minore politicizzazione della popolazione. Qui – in località inospitali e povere, prive di infrastrutture (fognature, ospedali, strade, scuole), in zone spesso malariche – il regime relegò, insieme ai dissidenti politici, altri soggetti ritenuti “pericolosi: Testimoni di Geova, Pentecostali, esponenti della Chiesa Battista (in quanto rappresentanti di un culto difforme dal cattolicesimo di Stato), omosessuali (la cui repressione si inquadrava nel quadro della politica demografica del regime e del concetto dell’«uomo nuovo fascista»), “sudditi” delle colonie africane, albanesi, slavi e alcuni fascisti dissidenti.
Vennero condannati al confino uomini come Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Girolamo Li Causi, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Emilio Lussu, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Leo Valiani, uomini che guidarono la Resistenza dopo il 1943, che ricoprirono incarichi di governo ed ebbero ruoli di primo piano nella vita politica del paese nel dopoguerra.
Attraverso l’esperienza del confino passarono anche Carlo Rosselli, Guido Picelli, Eugenio Curiel, Eugenio Colorni, Leone Ginsburg (caduti nella lotta contro il fascismo); intellettuali come Augusto Monti, Franco Venturi, Manlio Rossi-Doria, Franco Antonicelli, Massimo Mila; scrittori come Carlo Levi e Cesare Pavese i cui libri (Cristo si è fermato a Eboli e Prima che il gallo canti) hanno contribuito a far conoscere il prezzo pagato da quanti si sono opposti al regime.
Motivazioni per l’assegnazione al confino
I principali motivi per i quali veniva comminata l’assegnazione al confino sono riconducibili alle diverse manifestazioni di dissenso al fascismo: appartenere a partiti di opposizione, simpatizzare per idee contrarie al regime, svolgere attività antifascista, essere sospettato di alto tradimento, fare contropropaganda, diffondere materiale vietato, tentare la ricostituzione di partiti e associazioni disciolte.
Anche ex condannati che avevano terminato di scontare la pena inflitta dal Tribunale speciale o che, per mancanza o insufficienza di prove, erano stati assolti o prosciolti in istruttoria subivano non di rado il confino che per loro funzionava come una pena complementare, aggiuntiva o sostitutiva.
Una nuova detenzione – o il suo prolungamento – poteva essere giustificata in base a un giudizio di persistente pericolosità di un ex confinato. Per questo motivo il provvedimento di polizia non era solo preventivo ma funzionava di fatto anche come misura di sicurezza.
Anche i precedenti politici (o ciò che era stato commesso prima dell’avvento del regime) potevano essere motivo sufficiente per essere esiliato; il confino in questo caso finiva per avere un carattere di pena retroattiva.
Potevano giustificare l’imposizione del provvedimento anche ragioni banali come raccontare una barzelletta su Mussolini, fare affermazioni poco prudenti nei confronti del governo fascista, rifiutarsi di rispondere al saluto fascista, atti che corrispondevano a reati quali «offese al capo dello Stato» e «disfattismo verso lo Stato».
Altre motivazioni, che avevano attinenza con ambiti e atteggiamenti privati, portarono molte donne al confino: non aderire ai modelli femminili imposti dai fascisti, essere sospettate di praticare aborti o di diffondere metodi contraccettivi, avere relazioni sessuali fuori del matrimonio erano comportamenti che, turbando la morale o le direttive demografiche volute dal regime, venivano duramente puniti.
L’assegnazione al confino
Le prime assegnazioni (da 1 a 5 anni, rinnovabili se il confinato fosse ritenuto ancora “pericoloso”) venivano disposte a metà del novembre 1926.
Un mese più tardi, il numero dei confinati concentrati alle isole di Ustica, Favignana, Lipari, Pantelleria, Lampedusa e Tremiti superava i 600; a fine anno i confinati erano 900, in parte disseminati nei villaggi dell’Italia meridionale.
La prima ondata di invii al confino riguardò comunisti (Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci), socialisti (Giuseppe Massarenti, Giuseppe Romita), repubblicani (Mario Angeloni, Ferruccio Parri), anarchici (Gino Bibbi, Luigi Galleani), indipendenti (il capitano Giuseppe Giulietti) e alcuni liberaldemocratici affiliati alla massoneria (Roberto Bencivenga, Domizio Torreggiani).
Negli anni Trenta iniziarono ad affluire nei luoghi di confine numerosi membri di Giustizia e Libertà, nonostante la presenza dei comunisti rimanesse preponderante.
Lo scoppio della guerra civile in Spagna rianimò gli oppositori e il numero dei confinati aumentò (2.627 nel novembre 1937) nel quadro di una repressione più rigorosa. Nel 1939-1940 le forze di occupazione tedesche rimpatriarono coattivamente dalla Francia centinaia di antifascisti italiani che avevano combattuto nelle Brigate internazionali durante la guerra civile spagnola: essi furono regolarmente assegnati al confino.
Dal novembre 1926 al luglio 1943 il numero totale dei dissidenti esiliati si aggirò attorno alle 17.000 unità.
Il 26 luglio 1943, avuta notizia della caduta di Mussolini, i confinati cominciarono a richiedere la liberazione generale, ma il nuovo governo badogliano solo dalla metà di agosto dispose il loro rilascio.
L’identità dei confinati
Al confino erano rappresentati tutti i partiti politici antifascisti.
A Lipari, per esempio, nel 1930 su 350 confinati più della metà erano qualificati «comunisti», meno del 15% «anarchici», meno del 10% «socialisti». Il resto – genericamente definiti come «antifascisti», rei di aver recato offesa al capo dello stato, sovversivi, antinazionali, federalisti, repubblicani – costituiva meno del 3%.
Quanto all’origine sociale, la maggioranza dei condannati apparteneva a classi umili: a Ponza e a Lipari nel 1930 più del 70% erano operai e lavoratori manuali, appena il 10% erano impiegati, poco più del 7% erano intellettuali, membri della media borghesia, studenti, liberi professionisti, tra cui spiccavano gli avvocati.
Sempre a Lipari quasi la metà proveniva dal Nord, poco meno del 40% dal Centro, poco più del 10% dal Sud. Forte era la presenza di antifascisti originari delle storiche regioni rosse: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Marche.
L’età dei confinati era mediamente bassa: i ventenni e i trentacinquenni costituivano la maggioranza. (Dati in Camilla Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 36-37).
Vita al confino
Le condizioni di vita dei confinati erano spesso avvilenti. Venivano fatti alloggiare in cameroni comuni, spesso di dimensioni insufficienti ad accoglierli: androni umidi, bui, poco ventilati e ricolmi di pagliericci e qualche piolo per attaccarvi i panni. In questi ambienti gli oppositori politici venivano rinchiusi anche per quindici ore al giorno.
In qualche caso era possibile ottenere la sistemazione in un’abitazione privata, specialmente ai condannati cui era consentito vivere con la famiglia ma la situazione non era migliore. Molto spesso le abitazioni: «erano addirittura delle spelonche: una sola stanza, senza luce, senza acqua, senza latrina, senza nulla; le pareti senza intonaco, un finestrino in alto con l’inferriata, attraverso il quale entrava l’aria e usciva il fumo; per pavimento la nuda terra». (Giuseppe Scalarini, Le mie isole, a cura di Mario De Micheli, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 77).
L’alimentazione non era delle migliori, l’acqua non era potabile e bisognava bollirla, quella bevibile era venduta a caro prezzo. Frutta, verdura e carne scarseggiavano o erano di cattiva qualità. Il vitto non era vario: a pranzo e a cena veniva dato un minestrone, una volta o due al mese era concessa la pasta e per secondo, legumi o insalata scondita, o formaggio, o frutta, anche il pane non abbondava. (In isole in cui anche gli stessi abitanti avevano problemi per il proprio sostentamento, l’improvvisa richiesta di cibo per i prigionieri non riusciva ad essere soddisfatta).
Le opportunità di lavoro erano pressoché inesistenti e i confinati che non disponevano di risorse proprie vivevano in condizioni di grave indigenza, che il sussidio dato loro dal regime (10 lire, ridotte poi a 5 dopo il 1929) non poteva certo risolvere.
Spesso mancavano i capi di abbigliamento pesanti per proteggersi dai rigori del freddo, l’essenziale per vivere. Si arrivava «al punto, per bere, di far bollire l’acqua salata, di far cuocere per nutrirsi le foglie dei fichi d’India». (Ada Gobetti, Camilla Ravera: vita in carcere e al confino con lettere e documenti, Parma, Guanda, 1969, pp. 101-102).
I confinati dovevano sopportare profondi disagi anche per le condizioni igieniche: in situazioni di promiscuità e in ambienti ristretti, la scarsità, talvolta la totale mancanza di igiene, facilitava il moltiplicarsi di infezioni e malattie: tubercolosi, malaria, gastroenteriti, deperimenti organici, artriti, polmoniti, ecc. La diffusione delle patologie era dovuta anche al clima malsano, a una assistenza sanitaria assai carente, alla scarsità di farmaci.
Quali fossero le condizioni di vita che dovettero subire gli antifascisti è dimostrato dal numero dei morti: furono 177, pari all’1,25%: una percentuale alta se si considera che la loro età media si aggirava attorno ai trenta-quaranta anni. (Mimmo Franzinelli, Confino di polizia, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, Torino, Einaudi, 2002, I vol., 347)
Oltre alle condizioni materiali, ciò che rendeva la vita difficile e quasi insopportabile era l’arbitrio: «Non la legge dura, ma il non rispetto della legge, il sopruso, il malvolere, l’estrosità di chi la legge deve fare rispettare. Il confinato è alla mercè non soltanto del commissario e del vicecommissario, ma dell’ufficio politico, di ogni agente, di ogni milite». (Alberto Jacometti, Ventotene, Genova, Frilli editore, 2004, prima edizione 1946).
La permanenza nelle isole era scandita da rigidi orari, dagli appelli quotidiani, dalla distribuzione del sussidio giornaliero, dalla consegna della posta censurata, dalle perquisizioni, da brutali aggressioni. Talora si pagava con la morte un gesto di protesta o un atteggiamento di fierezza: il meccanico comunista Giuseppe Filiplich di Pistino (Istria) moriva a Lipari in seguito alle percosse subite dalla Milizia (Alessandro Pagano, Il confino politico a Lipari, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 167).
Gli oppositori ritenuti più pericolosi venivano poi assoggettati al pedinamento asfissiante dei militi fascisti che li seguivano in ogni momento della giornata e li sottoponevano a stretta sorveglianza anche durante le ore notturne e richieste di permessi, domande per poter ricevere visite e controlli sulla posta diventavano occasioni di «meschine angherie», gratuite crudeltà, soprusi volti a «umiliare e deprimere» (Riccardo Bauer, Introduzione a Ernesto Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia, Lettere da Ventotene 1939-1943, a cura di Manlio Magini, Milano, Feltrinelli, 1981.)
Quello che il regime voleva ottenere dai confinati era uno stato di totale dipendenza, di sottomissione, di avvilimento.
Alla volontà opprimente di controllo, gli antifascisti opponevano la difesa della propria identità e autonomia, realizzando una sorta di comunità alternativa, con reti di aiuto reciproco, con regole e forme di socialità proprie. Crearono mense, biblioteche, spacci di generi alimentari, organizzarono corsi di istruzione, gruppi di studio, celebrarono le proprie festività.
Protestarono collettivamente – scioperi della fame, autoconsegna nei cameroni, restituzione collettiva della carta di permanenza – in segno di solidarietà con i compagni maltrattati, per l’assunzione del controllo su mense e biblioteche da parte delle direzioni delle colonie, contro il divieto di affittare alloggi privati, contro l’imposizione del saluto romano.
Non senza motivo, l’esperienza confinaria è stata più volte ricordata come la palestra politica in cui si formarono i futuri quadri della Resistenza.
Didattica – Il Tribunale speciale
Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1927-1943)
Il Tribunale speciale ebbe il potere di processare il dissenso al regime: diffidare, ammonire, sottoporre a «vigilanza speciale» o condannare a pene detentive (carcere e/o confino) chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza del regime fascista.
A subire feroci condanne e odiosi maltrattamenti furono quindi tutti gli oppositori politici: persone comuni, ma più spesso dirigenti e militanti comunisti, socialisti, appartenenti a Giustizia e Libertà, anarchici, liberali, repubblicani, irredentisti sloveni e croati, resistenti libici e somali, ecc.
Il Tribunale speciale entrò in carica il 4 gennaio 1927 e divenne subito operante. Nonostante fosse stato concepito come strumento di giustizia politica straordinaria, destinato a esaurirsi in un quinquennio con l’annichilimento delle opposizioni, il Tribunale speciale venne invece continuamente prorogato e diventò uno dei simboli del regime. Fu, infatti, soppresso il 29 luglio 1943 (con d.l. n. 668) per essere poi ricostituito nel gennaio del 1944 nei territori della Repubblica Sociale Italiana.
Composizione e funzionamento
Il Tribunale speciale era costituito da un Presidente – scelto tra i generali della Marina, dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) (vedi testo in Promemoria), – e da cinque giudici espressi dalla Milizia e operò seguendo le norme del Codice penale militare in tempo di guerra: arresto obbligatorio, sentenza immediatamente esecutiva e inappellabile.
La strategia repressiva si articolava in varie fasi: indagini su base provinciale della polizia segreta fascista (OVRA – Organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo) (vedi testo in Promemoria), che portavano a una serie di arresti; prolungate carcerazioni preventive in condizioni durissime in attesa dei processi; proscioglimenti in istruttoria per i casi meno gravi (gli assolti erano comunque affidati al controllo costante della polizia), processi-lampo con condanne dai 2 ai 10 anni per i «semplici militanti» e dai 15 ai 20 per i «dirigenti».
I detenuti in attesa di giudizio ignoravano sia i capi d’accusa, sia le prove a carico. La posizione dei latitanti veniva stralciata: li si processava dopo la cattura, anche ad anni di distanza. Le condanne comportavano pene accessorie: il sequestro dei beni, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, anni di sorveglianza speciale da parte degli organi di polizia. I detenuti politici, una volta espiata la pena in carcere, venivano generalmente assegnati al confino, a meno che non si fossero “ravveduti”, ovvero impegnati ad astenersi da qualsiasi attività politica. Il deferimento al Tribunale speciale, a prescindere dagli esiti processuali, equivaleva alla morte civile: le persone coinvolte subivano uno stigma che rendeva loro difficile inserirsi nuovamente nella società dell’epoca.
Nell’Italia trasformata in Stato di polizia, con lo sgretolamento di ogni forma di diritto riconosciuto ai cittadini, il Tribunale speciale rafforzava la dittatura, incarcerando il dissenso.
L’ondata repressiva del 1926-1930 riusciva, infatti, a scompaginare l’antifascismo organizzato: il Tribunale speciale impostava maxiprocessi, con decine di imputati arrestati, celebrati in rapida successione. Nel 1928, ad esempio, Altiero Spinelli fu condannato a sedici anni e otto mesi di carcere per ricostituzione del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) e propaganda comunista, (aveva 20 anni); nel cosiddetto “processone” ai membri del Comitato centrale del Pcd’I furono condannati, tra gli altri, Umberto Terracini a ventidue anni e nove mesi, Antonio Gramsci e Mauro Scoccimarro a vent’anni e quattro mesi; nello stesso anno anche Giancarlo Pajetta subì, ad appena diciassette anni, la sua prima condanna a due anni di carcere, (altra ben più dura- dieci anni e sei mesi – seguiva nel 1934); nel 1929 toccò a Sandro Pertini essere condannato a dieci anni e nove mesi per attività sovversiva; nel 1930, fu la volta di Camilla Ravera, di Manlio Rossi-Doria, di Emilio Sereni condannati a quindici anni per ricostituzione del Partito comunista.
All’inizio degli anni Trenta venivano celebrati numerosi processi contro attivisti di Giustizia e Libertà, movimento politico d’opposizione formatosi nel 1929-1930: nel 1931 venivano condannati, tra gli altri, Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi a vent’anni di reclusione per attentato all’ordine costituzionale; nel 1934 Leone Ginsburg (quattro anni di carcere e cinque di interdizione ai pubblici uffici); nel 1936 Vittorio Foa (quindici anni per associazione e propaganda sovversiva,), Michele Giua (quindici anni), Massimo Mila (sette anni); nel 1937 Aligi Sassu (10 anni per attività sovversiva).
Nello stesso periodo aumentavano i procedimenti per spionaggio, in particolare contro veri o presunti agenti dei servizi segreti francesi e iugoslavi, con un’impennata nel 1935-36 in corrispondenza della guerra contro l’Etiopia.
Le condanne per gli antifascisti si inasprivano nuovamente nell’inverno 1937-38, per l’infiltrazione comunista nei sindacati, che aveva l’obiettivo di alimentare lo scontento nei lavoratori per i cedimenti del regime al padronato.
Dal 1940 aumentavano esponenzialmente i procedimenti per oltraggio al Capo del governo e propaganda disfattista: i disastri militari e le condizioni degli italiani in guerra alimentavano ondate di mormorazioni, aspre critiche e giudizi negativi nei confronti del regime. Negli ultimi anni di funzionamento del Tribunale speciale si moltiplicavano le punizioni per mercato nero, traffici valutari, omicidi comuni, rapine e stupri.
Il bilancio dell’attività svolta dal Tribunale speciale
Dal febbraio 1927 al luglio 1943, il Tribunale speciale processò 5.633 imputati – condannandone 4.610. Gli anni totali di prigione inflitti furono 27.732, 42 le condanne a morte, di cui 31 eseguite, 3 gli ergastoli. 5.513 processati erano uomini, 120 le donne, 697 i minorenni. Tra le categorie professionali, 3.899 imputati erano operai e artigiani, 546 i contadini, 221 liberi professionisti, 238 commercianti, 296 impiegati, 164 studenti, 37 casalinghe. (Adriano Dal Ponte, Alfonso Leonetti, Pasquale Maiello, Lino Zocchi, Aula IV, tutti i processi del Tribunale speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961, p. 476).
Il 17 ottobre 1928 il Tribunale speciale pronunciava la sua prima sentenza di morte contro il comunista Michele Della Maggiora, bracciante toscano ritenuto responsabile dell’uccisione di due fascisti. Venne fucilato il giorno successivo.
La serie delle condanne a morte proseguiva, nel 1929, con quella del nazionalista sloveno Vladimiro Gortan. Con quattro condanne a morte si concluse, nel settembre 1930, il processo svoltosi a Trieste, contro un gruppo di irredentisti slavi, ritenuti colpevoli di atti di terrorismo (Ferdinando Bidovec, Francesco Marussich, Luigi Valente, Zvonimiro Milos). Seguirono ancora, nel 1931, la condanna a morte dell’anarchico Michele Schirru, colpevole di aver avuto l’intenzione di uccidere Mussolini; nel 1932 quella dell’anarchico Angelo Sbardelotto, reo di avere avuto l’intenzione di attentare alla vita del Duce e di Domenico Bovone, un industriale torinese imputato di attentati dinamitardi. Durante la guerra vennero pronunciate 33 sentenze di condanne a morte, di cui ventidue eseguite, per fatti direttamente connessi ad essa (spionaggio, furto aggravato, ecc.) ma soprattutto per azioni partigiane ad opera di patrioti slavi operanti in Venezia Giulia.
Didattica – La marcia su Roma
La marcia su Roma
La marcia su Roma fu realizzata al culmine di due anni di violenze fasciste che sbaragliarono le organizzazioni di sinistra e i sindacati socialisti e cattolici. La violenza delle «squadre d’azione» colpì gli attivisti dei partiti antifascisti o dei sindacati per umiliarli e terrorizzarli.
Le sedi dell’opposizione politica e sindacale, quelle dei loro giornali, le persone fisiche degli oppositori del fascismo furono messi violentemente sotto attacco e – con la connivenza di parti dello Stato e delle forze dell’ordine e l’appoggio di settori del potere economico, questo attacco si risolse con l’annichilimento dei militanti socialisti e dei sindacati avversi al fascismo. Nonostante alcuni tentativi di organizzare un’autodifesa, l’esito dopo l’estate del 1922 era fortemente a favore delle squadre fasciste.
La marcia su Roma fu il momento di svolta di questa presa del potere del fascismo, il momento in cui la strategia eversiva combattuta nelle strade e quella istituzionale con l’appropriazione del potere politico si incontrarono e si passarono il testimone.
Tra la primavera e l’estate del 1922 la virulenza delle azioni delle squadre fasciste aveva più volte compiuto prove di forza prendendo temporaneamente possesso di alcune città ed in agosto era intervenuta contro un tentativo del sindacato di lanciare uno sciopero «legalitario», cioè in difesa della legalità, intervenendo con la forza contro i presìdi e sostituendo i lavoratori in sciopero. La violenza fascista, quindi, era eversiva delle norme democratiche ma allo stesso tempo si presentava anche come garante dell’ordine pubblico al posto dello Stato.
Fu ad ottobre – in occasione dell’adunata nazionale delle camicie nere a Napoli – che le gerarchie del partito, allora rappresentato in parlamento da 35 deputati su 535 eletti, presero la decisione di organizzare un’azione armata per forzare la mano al governo in carica. La marcia fu progettata come contemporanea occupazione dei principali luoghi istituzionali e centri di comunicazione nelle grandi città e marcia armata sulla capitale a partire da tre luoghi di concentrazione. Si trattava della prova di forza militare per ottenere la presa del potere.
Mussolini seguì la mobilitazione da Milano, mentre guidarono quattro gerarchi – De Bono, Balbo, Bianchi e De Vecchi – denominati «quadrumviri» con allusione all’Impero romano.
L’assembramento delle camicie nere procedette però con qualche difficoltà nonostante la scarsa volontà di contrasto dello Stato liberale. Quando il pur fragile governo liberale dichiarò lo stato d’assedio, che avrebbe comportato la trasmissione all’esercito dell’ordine di respingere con la forza i fascisti in marcia verso la capitale, il re Vittorio Emanuele III decise di non autorizzarlo, bensì di affidare a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo.
L’atto insurrezionale, quindi, non giunse al momento dello scontro e le camicie nere entrarono a Roma sulla base della scelta politica della monarchia, condivisa allora da larga parte delle forze liberali che pensavano di usare temporaneamente il fascismo per disfarsi delle forze di sinistra e poi di scaricarlo.
Così, in seguito alle scelte del re e al successivo voto delle forze liberali, nazionaliste e popolari in Parlamento, Mussolini divenne Presidente del consiglio e formò un governo di coalizione. Tra i primi atti che fece approvare fu l’assunzione delle squadre fasciste tra le forze dello Stato con il nome di Milizia volontaria di Sicurezza Nazionale: in questo modo gli squadristi illegittimamente armati divenivano agenti legittimamente operativi agli ordini diretti del Presidente del consiglio. Nei fatti si veniva compiendo la distruzione dello Stato liberale e l’inizio della dittatura.
Tra il 1922 e il 1926 ciò che rimaneva delle istituzioni ereditate dallo stato liberale venne progressivamente piegato agli interessi del partito fascista e ogni parvenza di libertà fu soppressa.
Didattica – La violenza dello squadrismo fascista
La violenza dello squadrismo fascista
Il termine «squadrismo» richiama storicamente l’esplosione della violenza fascista, a cui si assistette in Italia tra il 1919 e il 1922, esercitata nei confronti di oppositori politici, sedi della loro attività e simboli della loro fede politica.
Questo fenomeno politico-sociale non fu utilizzato uniformemente sull’intero territorio della penisola ma fu concentrato soprattutto in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Puglia: vale a dire nelle regioni in cui – durante il biennio 1919-1920 – il Partito socialista e il Partito popolare avevano conquistato democraticamente l’amministrazione di numerosissimi Comuni e gettato le basi per sostanziali riforme economico-sociali, regioni nelle quali i sindacati operai e contadini avevano ottenuto importanti vittorie sul padronato, rappresentando una minaccia per l’ordine sociale e il potere costituito.
Forza paramilitare organizzata, lo squadrismo fu parte integrante del successo riportato dal fascismo come movimento politico e valse da strumento essenziale della sua ascesa al potere.
Le squadre d’azione
Le azioni politiche del fascismo del primo periodo furono caratterizzate soprattutto per l’uso di una violenza inusitata esercitata nei confronti di sindacalisti, consiglieri municipali, attivisti, militanti e parlamentari dei partiti antifascisti (socialisti, comunisti, popolari, anarchici, repubblicani, ecc.).
Le prime clamorose azioni dei fascisti ebbero luogo a Trieste (13 luglio 1920) e a Bologna (21 novembre 1920). Nel primo caso, fu attaccata la sede di un’associazione che, nel capoluogo giuliano, difendeva i diritti e l’identità culturale della minoranza slava; nella città emiliana, invece, i fascisti cercarono di impedire l’insediamento del nuovo sindaco socialista.
A partire da quel momento, il movimento fascista si organizzò in «squadre d’azione» che organizzavano «spedizioni punitive» il cui obiettivo era ridurre al silenzio gli oppositori politici: interrompevano brutalmente comizi e manifestazioni di avversari politici, aggredendo i partecipanti e sparando sulla folla; assaltavano e devastavano sedi di quotidiani e partiti; uccidevano i sindacalisti che tutelavano gli interessi dei contadini e degli operai; picchiavano i sindaci e gli assessori delle giunte municipali socialiste e cattoliche, fermando i perseguitati per strada, prelevandoli dai luoghi di lavoro o di ritrovo ma più spesso irrompendo nelle loro case.
Subirono attacchi anche i centri vitali della presenza degli oppositori nei territori: vennero devastate sistematicamente le tipografie e le sedi dei partiti, eliminando così la possibilità di comunicare con aderenti e simpatizzanti; furono distrutti i luoghi di ritrovo delle leghe contadine cattoliche e di sinistra, nonché le sedi dei sindacati antifascisti, per disgregare i legami organizzativi di queste associazioni con i lavoratori. Agli assalti seguivano l’oltraggio dei simboli (quadri, bandiere, ecc.) sottratti agli oppositori, il rogo di suppellettili e pubblicazioni sulla pubblica via.
Nel primo semestre del 1921 vennero assaltate e distrutte dalle squadre fasciste, nella sola pianura padana: 17 sedi di giornali e tipografie, 59 Case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 cooperative, 83 Leghe contadine, 8 Società di mutuo soccorso, 141 sezioni socialiste o comuniste, 100 circoli di cultura, 10 biblioteche popolari o teatri, 28 sedi di sindacati operai, 53 circoli operai ricreativi, una università popolare. (Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna. La Prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Milano, Feltrinelli, 1996, vol. VIII, p. 353).
Nel 1921 lo squadrismo passò dalle azioni singole alle mobilitazioni di centinaia di fascisti, su base interprovinciale o interregionale: iniziarono ad essere organizzate vere e proprie campagne di terrore durante le quali gli squadristi dilagavano nei territori di una provincia. Esemplari di tale pratica intimidatoria furono le cosiddette “colonne di fuoco”, create a Ferrara da Italo Balbo: sotto la sua guida, gli squadristi battevano la pianura incendiando le case dei sindacalisti e dei militanti antifascisti più noti. Agli incendi, ai pestaggi faceva seguito la messa al bando di dirigenti e amministratori socialisti, democraticamente eletti, costretti a rassegnare le dimissioni dalle cariche pubbliche, abbandonare nelle mani degli avversari le sedi delle leghe, i beni delle cooperative, costretti ad emigrare all’estero se volevano salva la vita.
Intere regioni vennero “redente” (come affermavano i fascisti) con una serie di azioni da vera e propria guerra civile. Uno degli episodi più tristemente famosi fu l’occupazione militare di Grosseto, roccaforte socialista della Toscana meridionale, avvenuta il 29 e il 30 giugno 1921. Arrivati di notte per cogliere il nemico di sorpresa, gli squadristi scatenarono la caccia agli antifascisti nelle strade della città e, dopo aver avuto la meglio, diedero il via a un’operazione di rastrellamento su vasta scala, durante la quale passarono al setaccio una casa dopo l’altra alla ricerca di quelli che definivano “sovversivi”. Il mattino dopo, ritirandosi da Grosseto, si erano lasciati alle spalle diversi morti e una trentina di feriti.
Così, nel corso del 1921, i fascisti riuscirono a sconvolgere la campagna elettorale dei partiti antifascisti e a sovvertire l’egemonia socialista e cattolica negli enti locali.
Nel 1922, poi, lo squadrismo si trasformava in possente movimento di massa, in grado di occupare militarmente i centri urbani (Ferrara, Ravenna, Bologna, Trento, ecc.), in una sfida diretta al sistema di potere liberale.
Simboli, riti, culti dello squadrismo fascista
Organizzate militarmente, le squadre raccoglievano gli elementi più animosi e temerari, mediamente tra i dieci e i quindici, in prevalenza reduci di guerra e studenti non ancora ventenni, desiderosi di strappare le strade alla sinistra, ed erano guidate per lo più da ex ufficiali della Prima guerra mondiale.
I gruppi si intitolavano a martiri della patria (Cesare Battisti, Enrico Toti, ecc.) o della causa fascista o, più spesso, assumevano quale denominazione motti programmatici («Me ne frego», «Disperata») o simboli del culto virile della violenza o dell’operazione di pulizia che avrebbe spazzato via i “nemici interni” della nazione («Asso di bastone», «Ramazza»).
Le tecniche di aggressione delle squadre erano brutalmente dirette: quando non venivano adoperate armi da fuoco, si faceva largo uso di manganelli, pugnali, bombe a mano, d’uso comune anche i tirapugni di ferro e i nerbi di bue, sempre per “purificare” il corpo della nazione.
La minore delle punizioni riservata agli avversari politici – la somministrazione di una grande quantità di olio di ricino – veniva utilizzata per degradarli e ridicolizzarli e, per gli squadristi, aveva un suo rozzo significato simbolico: le vittime se la “facevano addosso”, materialmente per effetto del lassativo e moralmente per la loro indegnità di “traditori della patria”.
Una parte significativa dell’opinione pubblica iniziò ad abituarsi a tali atti, valutandoli con crescente consenso tanto che le squadre d’azione ingrossarono considerevolmente le loro file: nel corso del 1922 figuravano tra gli squadristi non solo rappresentanti dei ceti privilegiati ma anche liberi professionisti, commercianti, impiegati dell’amministrazione pubblica, fattori, piccoli proprietari terrieri, affittuari e coloni.
Resistenze
Sporadicamente socialisti, anarchici, comunisti, popolari e repubblicani unirono le loro forze – soprattutto attraverso l’esperienza degli «Arditi del popolo» – per difendersi dalle aggressioni fasciste anche sul piano militare.
Due esempi su tutti.
Nella primavera del 1921 a Sarzana, gli Arditi del popolo resistettero con successo alle incursioni squadriste. All’arrivo di rinforzi fascisti dalle città vicine il comandante dei carabinieri del posto si interpose tra le due parti, non rinunciando al proprio ruolo di tutore dell’ordine: al tentativo di sfondamento dei fascisti rispose aprendo il fuoco e facendo fallire la spedizione punitiva.
Alla fine di luglio del 1922 i sindacati di sinistra (uniti sotto la sigla “Alleanza del lavoro”) indicevano uno sciopero generale nazionale contro la violenza fascista e per riportare la legalità nel paese. Gli squadristi mettevano a ferro e fuoco il paese: assalivano i lavoratori in sciopero, occupavano Municipi e palazzi comunali, distruggevano decine di Camere del lavoro, sedi socialiste e comuniste, cooperative e leghe bracciantili. Nonostante i duri scontri che si ebbero a Genova, Alessandria, Livorno e Bari l’agitazione fallì.
Parma fu l’unica città nella pianura padana a respingere i fascisti. Mentre, nella notte del 31 luglio, i primi squadristi capeggiati da Italo Balbo si concentravano intorno alla città, Guido Picelli, parlamentare socialista, ordinava ai suoi «Arditi del popolo» di prendere le armi e insorgere. Con l’aiuto della popolazione del quartiere Oltretorrente, i fascisti venivano respinti per vari giorni, con forti perdite. Le camicie nere abbandonavano Parma il 6 agosto lasciando sul campo trentanove morti e centocinquanta feriti. I caduti tra i difensori della città erano quattro, tra i quali un ragazzo di 14 anni. Un quinto cittadino veniva ucciso dai fascisti mentre stava camminando.
Queste iniziative restarono però di portata locale e non riuscirono a fermare la marcia trionfale del fascismo. Dinanzi ai reiterati assalti degli squadristi, le infrastrutture del movimento socialista organizzato collassarono.
Il successo degli squadristi
Oltre all’impreparazione – o all’impossibilità – delle forze socialiste e cattoliche nel difendersi, altre ragioni spiegano il successo del movimento, prima fra tutte, la debolezza e l’incoerenza del governo liberale. La sua politica apparve spesso esitante e non sempre congruente: nell’opinione di uomini come Giolitti gli “eccessi” degli squadristi erano da disapprovare (e a tratti cercarono di rispondervi con misure repressive) ma restavano encomiabili il loro fervente patriottismo e l’acceso antisocialismo.
In occasione delle elezioni politiche del 1921, poi, Giolitti arrivò a includere i Fasci di combattimento nelle liste del cosiddetto «Blocco nazionale», legittimando l’esistenza delle squadre d’azione e mutandone il segno: da milizia privata a strumento d’ordine dello schieramento borghese. La classe politica liberale al governo pensava, in questo modo, di usare provvisoriamente il fascismo per attaccare il Partito socialista e azzerare la conflittualità sociale, salvo poi non essere più in grado di arrestarne la crescita.
Oltre a ciò, vari soggetti economici e politici ebbero interesse a far crescere il movimento fascista.
I grandi possidenti terrieri finanziarono lo squadrismo per annientare le leghe contadine e abbattere la loro forza contrattuale nelle campagne. Anche molti industriali, allarmati dalle occupazioni delle fabbriche del 1920, sostennero economicamente le squadre come milizie private in funzione antisocialista e videro positivamente l’ascesa del fascismo in quanto forza antibolscevica e protettrice della proprietà privata.
Alla fine del 1920, lo squadrismo godeva di vaste simpatie in quasi tutti gli ambienti conservatori e trovava l’avallo della grande stampa di informazione – fatto importante per l’influenza che essa aveva sull’opinione pubblica della media e piccola borghesia – che tenne un atteggiamento tutt’altro che imparziale nel descrivere gli avvenimenti.
Connivenze
Mentre vari soggetti sostenevano economicamente e politicamente il partito fascista e lo squadrismo, facendone aumentare capacità di azione e consenso nell’opinione pubblica, le simpatie, la tolleranza, a volte l’aperta collusione degli organi dello Stato (prefetti, questori, magistrati, forze dell’ordine ed esercito) ne assicurarono libertà di manovra e una sempre maggiore impunità nelle azioni.
Con la fine del 1920 e soprattutto nel 1921, la magistratura non pose un freno agli abusi squadristi: spedizioni contro consiglieri comunali e provinciali rimaneva spesso impunite, aggressioni mortali venivano minimizzate, versioni difensive inattendibili erano prese per buone e, sovente, giudici compiacenti usavano criteri diversi per valutare situazioni simili a seconda che gli imputati fossero fascisti o socialisti.
L’atteggiamento dei corpi di polizia (carabinieri, ufficiali di polizia, guardie regie) era accondiscendente e/o omissivo nei confronti dei fascisti quando non favoriva la riuscita delle loro spedizioni: arrestando e disarmando i socialisti, permettendo che i fascisti si abbandonassero in modo indisturbato alle loro violente azioni, alle quali spesso partecipavano direttamente.
Le forti complicità si tradussero, ai vertici delle Forze armate, soprattutto nella concessione sottobanco di armi e mezzi di trasporto.
Tale atteggiamento connivente è dimostrato da una statistica ufficiale, secondo cui, dall’inizio dell’anno fino all’8 maggio 1921, risultavano all’autorità di Pubblica Sicurezza 1.073 casi di violenza tra socialisti e fascisti, in conseguenza dei quali, però, erano stati arrestati 1.421 socialisti e solo 396 fascisti. (Renzo De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966, vol. I, p. 35).
Le vittime
Le spedizioni punitive delle squadre d’azione avevano un unico obiettivo: costringere al silenzio l’avversario politico, isolarlo dal consesso civile, farlo allontanare dal territorio, o annientarlo fisicamente. Gli assassinii dei “sovversivi”, nome con cui venivano apostrofati i militanti di sinistra, furono numerosissimi, “atti esemplari” di un percorso verso la presa del potere che passava attraverso l’eliminazione del “nemico interno”.
Sebbene il numero esatto dei caduti per mano fascista prima della Marcia su Roma non si conosca, essi sarebbero stati circa tremila tra il 1921 e il 1922; di questi, seicento sarebbero stati socialisti. (Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 321). Nel complesso, un numero imponente, che rappresenta un preciso indicatore della propensione dei fascisti a impiegare la violenza nella lotta politica.
Gli squadristi uccisi fra il 1919 e la Marcia su Roma, invece, furono in tutto 425, di cui 4 nel 1919, 36 nel 1920, 232 nel 1921 e 153 fra il 1º gennaio e il 31 ottobre 1922. (Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003, p. 169).