La marcia su Roma
La marcia su Roma fu realizzata al culmine di due anni di violenze fasciste che sbaragliarono le organizzazioni di sinistra e i sindacati socialisti e cattolici. La violenza delle «squadre d’azione» colpì gli attivisti dei partiti antifascisti o dei sindacati per umiliarli e terrorizzarli.
Le sedi dell’opposizione politica e sindacale, quelle dei loro giornali, le persone fisiche degli oppositori del fascismo furono messi violentemente sotto attacco e – con la connivenza di parti dello Stato e delle forze dell’ordine e l’appoggio di settori del potere economico, questo attacco si risolse con l’annichilimento dei militanti socialisti e dei sindacati avversi al fascismo. Nonostante alcuni tentativi di organizzare un’autodifesa, l’esito dopo l’estate del 1922 era fortemente a favore delle squadre fasciste.
La marcia su Roma fu il momento di svolta di questa presa del potere del fascismo, il momento in cui la strategia eversiva combattuta nelle strade e quella istituzionale con l’appropriazione del potere politico si incontrarono e si passarono il testimone.
Tra la primavera e l’estate del 1922 la virulenza delle azioni delle squadre fasciste aveva più volte compiuto prove di forza prendendo temporaneamente possesso di alcune città ed in agosto era intervenuta contro un tentativo del sindacato di lanciare uno sciopero «legalitario», cioè in difesa della legalità, intervenendo con la forza contro i presìdi e sostituendo i lavoratori in sciopero. La violenza fascista, quindi, era eversiva delle norme democratiche ma allo stesso tempo si presentava anche come garante dell’ordine pubblico al posto dello Stato.
Fu ad ottobre – in occasione dell’adunata nazionale delle camicie nere a Napoli – che le gerarchie del partito, allora rappresentato in parlamento da 35 deputati su 535 eletti, presero la decisione di organizzare un’azione armata per forzare la mano al governo in carica. La marcia fu progettata come contemporanea occupazione dei principali luoghi istituzionali e centri di comunicazione nelle grandi città e marcia armata sulla capitale a partire da tre luoghi di concentrazione. Si trattava della prova di forza militare per ottenere la presa del potere.
Mussolini seguì la mobilitazione da Milano, mentre guidarono quattro gerarchi – De Bono, Balbo, Bianchi e De Vecchi – denominati «quadrumviri» con allusione all’Impero romano.
L’assembramento delle camicie nere procedette però con qualche difficoltà nonostante la scarsa volontà di contrasto dello Stato liberale. Quando il pur fragile governo liberale dichiarò lo stato d’assedio, che avrebbe comportato la trasmissione all’esercito dell’ordine di respingere con la forza i fascisti in marcia verso la capitale, il re Vittorio Emanuele III decise di non autorizzarlo, bensì di affidare a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo.
L’atto insurrezionale, quindi, non giunse al momento dello scontro e le camicie nere entrarono a Roma sulla base della scelta politica della monarchia, condivisa allora da larga parte delle forze liberali che pensavano di usare temporaneamente il fascismo per disfarsi delle forze di sinistra e poi di scaricarlo.
Così, in seguito alle scelte del re e al successivo voto delle forze liberali, nazionaliste e popolari in Parlamento, Mussolini divenne Presidente del consiglio e formò un governo di coalizione. Tra i primi atti che fece approvare fu l’assunzione delle squadre fasciste tra le forze dello Stato con il nome di Milizia volontaria di Sicurezza Nazionale: in questo modo gli squadristi illegittimamente armati divenivano agenti legittimamente operativi agli ordini diretti del Presidente del consiglio. Nei fatti si veniva compiendo la distruzione dello Stato liberale e l’inizio della dittatura.
Tra il 1922 e il 1926 ciò che rimaneva delle istituzioni ereditate dallo stato liberale venne progressivamente piegato agli interessi del partito fascista e ogni parvenza di libertà fu soppressa.