I provvedimenti di internamento per ebrei italiani e stranieri
L’istituto dell’internamento è un provvedimento restrittivo della libertà di una persona, una misura di sicurezza interna e militare che, in caso di conflitto, ogni Stato ha il potere di mettere in atto nei confronti di stranieri di nazioni nemiche residenti nel suo territorio; è regolato da leggi internazionali e prevede l’allontanamento degli individui ritenuti «pericolosi nelle contingenze belliche» da zone del paese considerate militarmente importanti, e il conseguente invio in località dove sia facile esercitarne la sorveglianza.
Questo provvedimento, ritenuto quindi una logica conseguenza delle misure legislative prese da uno Stato in caso di conflitto, venne tuttavia alterato, nelle sue finalità e concezioni di fondo, dal regime fascista in quanto, allo scoppio della seconda guerra mondiale, fu esteso anche e soprattutto nei confronti di cittadini italiani ritenuti pericolosi per le loro idee politiche contrarie al regime e in questa categoria vennero compresi anche tutti gli ebrei stranieri e quelli italiani, considerati «capaci di attività di spionaggio, di sabotaggio» e di «propaganda disfattista». Le misure di internamento, quindi, assunsero una netta connotazione antiebraica e si legarono strettamente alla politica razzista portata avanti dal regime.
In base a questa ordinanza, dunque, oltre 6.000 ebrei stranieri e circa 350-400 italiani vennero arrestati e imprigionati nei circa cinquanta campi di internamento che si trovavano per lo più nelle regioni centro-meridionali, scelte per la lontananza da centri di importanza militare, per la scarsa densità abitativa e per la minore politicizzazione della popolazione. I maggiori furono quelli di Ferramonti di Tarsia (in provincia di Cosenza), Campagna (in provincia di Salerno) e Civitella del Tronto (in provincia di Teramo).
Per quanto riguarda gli ebrei stranieri avrebbero dovuto essere internati, secondo il principio internazionalmente accettato, solo quelli appartenenti a nazionalità nemica – come, ad esempio, i francesi – mentre venne disposto l’arresto anche dei cittadini di nazioni alleate, come i tedeschi. Vennero fermati anche se in possesso di permessi di soggiorno e di passaporti validi (non furono risparmiate nemmeno le donne) e messi, prima di tutto, in carcere insieme ai delinquenti comuni, dove soggiornavano in attesa di essere destinati ai vari campi di internamento.
La precettazione al lavoro obbligatorio (maggio 1942)
L’ennesima disposizione ministeriale persecutoria venne emanata il 6 maggio 1942: la cosiddetta «precettazione obbligatoria a scopo di lavoro» in base alla quale gli ebrei, di ambo i sessi, compresi fra i 18 e i 55 anni dovevano essere avviati al lavoro coatto; per i trasgressori era previsto l’arresto e la denuncia ai tribunali militari. Di fatto, furono costretti a svolgere esclusivamente lavori manuali, separati dai lavoratori «ariani», e a ricevere paghe inferiori a parità di mansione.
I campi di concentramento voluti dal duce (primavera-estate 1943)
Nella primavera-estate del 1943, quindi ben prima dell’occupazione nazista, avvenne un vero e proprio «salto di qualità» nella persecuzione attuata dal regime: furono, infatti, programmati campi di concentramento per il lavoro forzato degli ebrei dai 18 ai 36 anni, di ambo i sessi, da istituire in Veneto, Lombardia, Piemonte e Lazio. Questa gravissima misura corrispondeva alla revoca della libertà personale, alla rottura di nuclei familiari, allo schiavismo giuridico ed economico, alla deportazione interna. Soltanto la caduta del regime fascista bloccò la realizzazione di una disposizione normativa, completamente articolata in ogni suo aspetto, che avrebbe consentito il concentramento di 9.146 ebrei, secondo quanto riportato in un prospetto della Demorazza.