Il confino
All’indomani dell’unificazione nazionale fu istituito un provvedimento transitorio contro il brigantaggio denominato «domicilio coatto», legalizzato poi con la legge Pica nel 1863. Nei decenni successivi venne sempre più utilizzato come strumento di repressione del dissenso politico e sociale. Fu infatti ufficialmente reintrodotto nell’ordinamento giuridico – con la denominazione «confino di polizia» – dal regime fascista nel 1926.
Il confino diventò un’arma insostituibile per il regime: allontanava gli antifascisti militanti dai luoghi di residenza per anni, isolandoli e sottoponendoli a continua sorveglianza, evitando eclatanti azioni repressive che avrebbero danneggiato l’immagine del nuovo Stato fascista e che, allo stesso tempo, avrebbero dimostrato quanto il dissenso fosse tutt’altro che soffocato.
I luoghi preposti per l’esilio furono le isole di Lampedusa, Favignana, Ustica, Ponza, Lipari, Pantelleria, Tremiti, Ventotene e sperduti paesi della Basilicata, della Calabria e della Sicilia, scelti per l’isolamento che favoriva la sorveglianza, per la scarsa densità abitativa e per la minore politicizzazione della popolazione. Qui – in località inospitali e povere, prive di infrastrutture (fognature, ospedali, strade, scuole), in zone spesso malariche – il regime relegò, insieme ai dissidenti politici, altri soggetti ritenuti “pericolosi: Testimoni di Geova, Pentecostali, esponenti della Chiesa Battista (in quanto rappresentanti di un culto difforme dal cattolicesimo di Stato), omosessuali (la cui repressione si inquadrava nel quadro della politica demografica del regime e del concetto dell’«uomo nuovo fascista»), “sudditi” delle colonie africane, albanesi, slavi e alcuni fascisti dissidenti.
Vennero condannati al confino uomini come Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Girolamo Li Causi, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Emilio Lussu, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Leo Valiani, uomini che guidarono la Resistenza dopo il 1943, che ricoprirono incarichi di governo ed ebbero ruoli di primo piano nella vita politica del paese nel dopoguerra.
Attraverso l’esperienza del confino passarono anche Carlo Rosselli, Guido Picelli, Eugenio Curiel, Eugenio Colorni, Leone Ginsburg (caduti nella lotta contro il fascismo); intellettuali come Augusto Monti, Franco Venturi, Manlio Rossi-Doria, Franco Antonicelli, Massimo Mila; scrittori come Carlo Levi e Cesare Pavese i cui libri (Cristo si è fermato a Eboli e Prima che il gallo canti) hanno contribuito a far conoscere il prezzo pagato da quanti si sono opposti al regime.
Motivazioni per l’assegnazione al confino
I principali motivi per i quali veniva comminata l’assegnazione al confino sono riconducibili alle diverse manifestazioni di dissenso al fascismo: appartenere a partiti di opposizione, simpatizzare per idee contrarie al regime, svolgere attività antifascista, essere sospettato di alto tradimento, fare contropropaganda, diffondere materiale vietato, tentare la ricostituzione di partiti e associazioni disciolte.
Anche ex condannati che avevano terminato di scontare la pena inflitta dal Tribunale speciale o che, per mancanza o insufficienza di prove, erano stati assolti o prosciolti in istruttoria subivano non di rado il confino che per loro funzionava come una pena complementare, aggiuntiva o sostitutiva.
Una nuova detenzione – o il suo prolungamento – poteva essere giustificata in base a un giudizio di persistente pericolosità di un ex confinato. Per questo motivo il provvedimento di polizia non era solo preventivo ma funzionava di fatto anche come misura di sicurezza.
Anche i precedenti politici (o ciò che era stato commesso prima dell’avvento del regime) potevano essere motivo sufficiente per essere esiliato; il confino in questo caso finiva per avere un carattere di pena retroattiva.
Potevano giustificare l’imposizione del provvedimento anche ragioni banali come raccontare una barzelletta su Mussolini, fare affermazioni poco prudenti nei confronti del governo fascista, rifiutarsi di rispondere al saluto fascista, atti che corrispondevano a reati quali «offese al capo dello Stato» e «disfattismo verso lo Stato».
Altre motivazioni, che avevano attinenza con ambiti e atteggiamenti privati, portarono molte donne al confino: non aderire ai modelli femminili imposti dai fascisti, essere sospettate di praticare aborti o di diffondere metodi contraccettivi, avere relazioni sessuali fuori del matrimonio erano comportamenti che, turbando la morale o le direttive demografiche volute dal regime, venivano duramente puniti.
L’assegnazione al confino
Le prime assegnazioni (da 1 a 5 anni, rinnovabili se il confinato fosse ritenuto ancora “pericoloso”) venivano disposte a metà del novembre 1926.
Un mese più tardi, il numero dei confinati concentrati alle isole di Ustica, Favignana, Lipari, Pantelleria, Lampedusa e Tremiti superava i 600; a fine anno i confinati erano 900, in parte disseminati nei villaggi dell’Italia meridionale.
La prima ondata di invii al confino riguardò comunisti (Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci), socialisti (Giuseppe Massarenti, Giuseppe Romita), repubblicani (Mario Angeloni, Ferruccio Parri), anarchici (Gino Bibbi, Luigi Galleani), indipendenti (il capitano Giuseppe Giulietti) e alcuni liberaldemocratici affiliati alla massoneria (Roberto Bencivenga, Domizio Torreggiani).
Negli anni Trenta iniziarono ad affluire nei luoghi di confine numerosi membri di Giustizia e Libertà, nonostante la presenza dei comunisti rimanesse preponderante.
Lo scoppio della guerra civile in Spagna rianimò gli oppositori e il numero dei confinati aumentò (2.627 nel novembre 1937) nel quadro di una repressione più rigorosa. Nel 1939-1940 le forze di occupazione tedesche rimpatriarono coattivamente dalla Francia centinaia di antifascisti italiani che avevano combattuto nelle Brigate internazionali durante la guerra civile spagnola: essi furono regolarmente assegnati al confino.
Dal novembre 1926 al luglio 1943 il numero totale dei dissidenti esiliati si aggirò attorno alle 17.000 unità.
Il 26 luglio 1943, avuta notizia della caduta di Mussolini, i confinati cominciarono a richiedere la liberazione generale, ma il nuovo governo badogliano solo dalla metà di agosto dispose il loro rilascio.
L’identità dei confinati
Al confino erano rappresentati tutti i partiti politici antifascisti.
A Lipari, per esempio, nel 1930 su 350 confinati più della metà erano qualificati «comunisti», meno del 15% «anarchici», meno del 10% «socialisti». Il resto – genericamente definiti come «antifascisti», rei di aver recato offesa al capo dello stato, sovversivi, antinazionali, federalisti, repubblicani – costituiva meno del 3%.
Quanto all’origine sociale, la maggioranza dei condannati apparteneva a classi umili: a Ponza e a Lipari nel 1930 più del 70% erano operai e lavoratori manuali, appena il 10% erano impiegati, poco più del 7% erano intellettuali, membri della media borghesia, studenti, liberi professionisti, tra cui spiccavano gli avvocati.
Sempre a Lipari quasi la metà proveniva dal Nord, poco meno del 40% dal Centro, poco più del 10% dal Sud. Forte era la presenza di antifascisti originari delle storiche regioni rosse: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Marche.
L’età dei confinati era mediamente bassa: i ventenni e i trentacinquenni costituivano la maggioranza. (Dati in Camilla Poesio, Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 36-37).
Vita al confino
Le condizioni di vita dei confinati erano spesso avvilenti. Venivano fatti alloggiare in cameroni comuni, spesso di dimensioni insufficienti ad accoglierli: androni umidi, bui, poco ventilati e ricolmi di pagliericci e qualche piolo per attaccarvi i panni. In questi ambienti gli oppositori politici venivano rinchiusi anche per quindici ore al giorno.
In qualche caso era possibile ottenere la sistemazione in un’abitazione privata, specialmente ai condannati cui era consentito vivere con la famiglia ma la situazione non era migliore. Molto spesso le abitazioni: «erano addirittura delle spelonche: una sola stanza, senza luce, senza acqua, senza latrina, senza nulla; le pareti senza intonaco, un finestrino in alto con l’inferriata, attraverso il quale entrava l’aria e usciva il fumo; per pavimento la nuda terra». (Giuseppe Scalarini, Le mie isole, a cura di Mario De Micheli, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 77).
L’alimentazione non era delle migliori, l’acqua non era potabile e bisognava bollirla, quella bevibile era venduta a caro prezzo. Frutta, verdura e carne scarseggiavano o erano di cattiva qualità. Il vitto non era vario: a pranzo e a cena veniva dato un minestrone, una volta o due al mese era concessa la pasta e per secondo, legumi o insalata scondita, o formaggio, o frutta, anche il pane non abbondava. (In isole in cui anche gli stessi abitanti avevano problemi per il proprio sostentamento, l’improvvisa richiesta di cibo per i prigionieri non riusciva ad essere soddisfatta).
Le opportunità di lavoro erano pressoché inesistenti e i confinati che non disponevano di risorse proprie vivevano in condizioni di grave indigenza, che il sussidio dato loro dal regime (10 lire, ridotte poi a 5 dopo il 1929) non poteva certo risolvere.
Spesso mancavano i capi di abbigliamento pesanti per proteggersi dai rigori del freddo, l’essenziale per vivere. Si arrivava «al punto, per bere, di far bollire l’acqua salata, di far cuocere per nutrirsi le foglie dei fichi d’India». (Ada Gobetti, Camilla Ravera: vita in carcere e al confino con lettere e documenti, Parma, Guanda, 1969, pp. 101-102).
I confinati dovevano sopportare profondi disagi anche per le condizioni igieniche: in situazioni di promiscuità e in ambienti ristretti, la scarsità, talvolta la totale mancanza di igiene, facilitava il moltiplicarsi di infezioni e malattie: tubercolosi, malaria, gastroenteriti, deperimenti organici, artriti, polmoniti, ecc. La diffusione delle patologie era dovuta anche al clima malsano, a una assistenza sanitaria assai carente, alla scarsità di farmaci.
Quali fossero le condizioni di vita che dovettero subire gli antifascisti è dimostrato dal numero dei morti: furono 177, pari all’1,25%: una percentuale alta se si considera che la loro età media si aggirava attorno ai trenta-quaranta anni. (Mimmo Franzinelli, Confino di polizia, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, Torino, Einaudi, 2002, I vol., 347)
Oltre alle condizioni materiali, ciò che rendeva la vita difficile e quasi insopportabile era l’arbitrio: «Non la legge dura, ma il non rispetto della legge, il sopruso, il malvolere, l’estrosità di chi la legge deve fare rispettare. Il confinato è alla mercè non soltanto del commissario e del vicecommissario, ma dell’ufficio politico, di ogni agente, di ogni milite». (Alberto Jacometti, Ventotene, Genova, Frilli editore, 2004, prima edizione 1946).
La permanenza nelle isole era scandita da rigidi orari, dagli appelli quotidiani, dalla distribuzione del sussidio giornaliero, dalla consegna della posta censurata, dalle perquisizioni, da brutali aggressioni. Talora si pagava con la morte un gesto di protesta o un atteggiamento di fierezza: il meccanico comunista Giuseppe Filiplich di Pistino (Istria) moriva a Lipari in seguito alle percosse subite dalla Milizia (Alessandro Pagano, Il confino politico a Lipari, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 167).
Gli oppositori ritenuti più pericolosi venivano poi assoggettati al pedinamento asfissiante dei militi fascisti che li seguivano in ogni momento della giornata e li sottoponevano a stretta sorveglianza anche durante le ore notturne e richieste di permessi, domande per poter ricevere visite e controlli sulla posta diventavano occasioni di «meschine angherie», gratuite crudeltà, soprusi volti a «umiliare e deprimere» (Riccardo Bauer, Introduzione a Ernesto Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia, Lettere da Ventotene 1939-1943, a cura di Manlio Magini, Milano, Feltrinelli, 1981.)
Quello che il regime voleva ottenere dai confinati era uno stato di totale dipendenza, di sottomissione, di avvilimento.
Alla volontà opprimente di controllo, gli antifascisti opponevano la difesa della propria identità e autonomia, realizzando una sorta di comunità alternativa, con reti di aiuto reciproco, con regole e forme di socialità proprie. Crearono mense, biblioteche, spacci di generi alimentari, organizzarono corsi di istruzione, gruppi di studio, celebrarono le proprie festività.
Protestarono collettivamente – scioperi della fame, autoconsegna nei cameroni, restituzione collettiva della carta di permanenza – in segno di solidarietà con i compagni maltrattati, per l’assunzione del controllo su mense e biblioteche da parte delle direzioni delle colonie, contro il divieto di affittare alloggi privati, contro l’imposizione del saluto romano.
Non senza motivo, l’esperienza confinaria è stata più volte ricordata come la palestra politica in cui si formarono i futuri quadri della Resistenza.