Didattica – La legislazione antiebraica

La legislazione antiebraica in Italia e le sue conseguenze

Nell’estate-autunno del 1938 il regime fascista avviò l’elaborazione di una serie di leggi finalizzate alla persecuzione antiebraica. Nel giro di pochi mesi gli ebrei, cittadini italiani a tutti gli effetti almeno a partire dal 1870, furono obbligati ad una vera e propria segregazione razziale all’interno del proprio paese.

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1. La crisi del fascismo e il colpo di stato del re

Al malessere del Paese rispondeva l’indebolimento del Partito Nazionale Fascista. Non calavano certo le iscrizioni, che erano obbligatorie ed erano tanto più richieste a tutti i cittadini in quegli anni, quando dovevano attestare la fiducia nelle sorti del conflitto. Ma la dirigenza del PNF non riusciva a rinnovarsi o a esprimere nuovi leader per resuscitare i passati consensi; il mastodontico partito restava affidato ai rituali escogitati da Achille Starace. Per rispondere a tale vuoto Mussolini lanciò una demagogica campagna anticapitalista, a cui non corrisposero provvedimenti di giustizia sociale o di miglioramenti salariali (sindacati fascisti), mentre proseguiva e si faceva più oppressiva la persecuzione degli ebrei.
La drammatica situazione militare e politica richiedeva soluzioni drastiche: dopo aver sconfitto le truppe dell’Asse in Africa, e mentre si consumava la tragedia della ritirata di Russia, gli anglo-americani attuavano uno sbarco in Sicilia (10 luglio 1943) con un grande apparato di forze e iniziavano ad avanzare verso l’Italia peninsulare. Appariva ormai ineluttabile la necessità italiana di ritirarsi dal conflitto; ma un debole Mussolini – anch’egli conscio della grave situazione – non riuscì nemmeno a prospettare a Hitler questa soluzione nell’incontro di Feltre (19 luglio 1943, proprio nel giorno del bombardamento di Roma).
Di questa soluzione si erano invece andati convincendo sia i circoli militari, sia lo stesso re, sia gran parte delle alte cariche del PNF. Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo, riunito dopo una lunga sospensione, votò una risoluzione per chiedere al re di riprendere i poteri che lo Statuto gli assegnava in quanto capo delle Forze Armate.

Convinto della ineluttabilità della sconfitta, Vittorio Emanuele III si appoggiò alla risoluzione del Gran Consiglio per rovesciare la situazione senza le remore legalitarie che aveva addotto nel 1924 per non scalzare il simpatico giovanotto in camicia nera. Arrestato e imprigionato Mussolini, il re nominò capo del governo Pietro Badoglio, che instaurò nei 45 giorni successivi alla sua nomina una autentica dittatura militare, utilizzando l’esercito per reprimere tutte le manifestazioni popolari indirizzate a chiedere “pace e libertà”. Badoglio e il re temevano le reazioni tedesche al rovesciamento delle alleanze, ma nello stesso tempo tardavano a portare a conclusione le trattative avviate in gran segreto.
La condotta ambigua del governo italiano indusse gli alleati a scatenare sulla penisola, alla metà d’agosto 1943, una serie di bombardamenti tra i più distruttivi dell’intera guerra.
I partiti antifascisti, che si erano ricostituiti o che andavano costituendosi, non furono legalmente riconosciuti anche se i loro esponenti in carcere furono liberati, con gradualità in modo da ostacolare le sinistre. Vennero tuttavia costituiti in diverse città e a Roma stessa dei Comitati delle Opposizioni che intendevano premere in senso democratico sulle autorità di governo, mentre con scioperi e manifestazioni di piazza si allargava la protesta popolare contro il proseguimento del conflitto.

1. La Consulta e la Costituente

Viva l'Italia libera

Nei primi mesi dopo la Liberazione aspetti positivi e promesse di cambiamento si intrecciarono con il preannuncio di un ritorno dello Stato tradizionale, accentratore e sordo alle istanze di rinnovamento democratico.
L’istituzione dei Consigli di Gestione alimentò per una breve stagione le speranze di un gestione democratica dell’economia grazie alla partecipazione dei lavoratori, ma la realizzazione fu impari alle speranze. Il ritorno dei padroni ai loro posti di comando fu accompagnato da una campagna che predicava la libertà assoluta in economia e dalla demonizzazione del ruolo dello Stato. Il breve successo di queste idee fu illusorio perché i tempi richiedevano più forti compagini economiche per la concorrenza sul piano internazionale. I sindacati, riuniti nella CGIL unitaria, costituita con il Patto di Roma nel giugno 1944, godevano di un grande prestigio popolare, ma erano travagliati dal contrasto tra le diverse correnti, e soprattutto tra la destra cristiana e la sinistra (socialisti e comunisti).

Sul piano politico i partiti antifascisti diedero vita a un governo di coalizione presieduto da Ferruccio Parri (21 giugno 1945), già vicecomandante del CVL, che sembrò garantire alla Resistenza un ruolo decisivo; ma al prestigioso e integerrimo presidente del Consiglio, esponente del Partito d’Azione, mancò sia l’abilità tattica sia l’appoggio degli altri partiti del CLN. Vittima della ostilità dei conservatori (DC e liberali) e degli alleati, che temevano fosse un complice dei comunisti, dovette dimettersi il 22 novembre; fu sostituito il 10 dicembre 1945 dal democristiano Alcide De Gasperi.
Si apriva di lì in avanti la campagna elettorale per l’elezione della Assemblea Costituente, che avrebbe accompagnato il referendum istituzionale, secondo l’accordo tra il CLN e la Corona (DLL n. 151/1944). Anche per regolare tale evento fu istituita un’assemblea legislativa provvisoria, la Consulta Nazionale, non elettiva (fu in carica dal 25 settembre 1945 al 2 giugno 1946), composta da personalità dell’antifascismo. Tra le sue deliberazioni quella di estendere il voto a tutti cittadini senza distinzione di sesso, accompagnata tuttavia dalla limitazione dei poteri della Costituente che non avrebbe potuto legiferare.


2. Armistizio e occupazione tedesca

Al termine di lunghe e, da parte italiana esitanti, trattative con i comandi alleati il generale Castellano firmò a Cassibile l’armistizio il 3 settembre 1943. Esso prevedeva la resa incondizionata dell’Italia, la consegna della flotta e la successiva dichiarazione di guerra alla Germania. La reazione tedesca fu immediata e preparata da tempo: dalla fine di luglio era iniziato l’afflusso di nuove truppe che all’8 settembre occuparono il paese, disarmando l’esercito in Italia, nei Balcani e in Grecia e avviando i militari nei campi di internamento tedeschi, ovvero gli Internati Militari Italiani.
La cattura di 600.000 uomini senza una strategia di resistenza guidata dai responsabili dell’apparato militare fu resa possibile dall’ignavia delle re e degli alti comandi delle Forze Armate, che fuggirono da Roma per mettersi sotto la protezione degli Alleati dove costituirono nelle provincie meridionali il Regno del Sud.
In contrapposizione al governo formalmente legittimo del Savoia sorse, alleata dei tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana, a capo della quale si pose Mussolini, liberato dalla prigione del Gran Sasso dall’Obersturmfuhrer Skorzeni. La repubblica governava i territori al nord della linea del fronte, con l’eccezione dei territori nordorientali, definiti teatro di operazioni militari (Alpenvorland e Adriatische Küstenland) e di fatto annessi al Terzo Reich. Completamente sottomessa agli ordini dell’occupante sul piano militare e politico, la repubblica tentò anche di progettare un nuovo ordinamento politico e sociale ispirato al modello nazista. Ma il nocciolo era l’istituzione dei Consigli di Gestione nelle fabbriche che avrebbero dovuto porre fine al sistema capitalista: una manovra demagogica che allarmò i tedeschi e i padroni italiani ma che venne rifiutata dalle masse operaie come un trucco.
La Germania dal canto suo instaurò in Italia un articolato sistema di occupazione militare mirante a sfruttare tutte le risorse materiali ed umane del Paese per rafforzare il proprio potenziale bellico.

 

La nascita della Resistenza armata aprì un conflitto diretto non solo contro l’occupante straniero ma anche contro le Forze armate della RSI: fascisti e nazisti si impegnarono in un’opera di repressione che non risparmiò donne e civili disarmati in una vera e propria guerra ai civili. Dal canto loro i partigiani misero in atto una guerriglia che, malgrado l’evidente disparità di armamento, pose in non poche difficoltà gli occupanti.
Il Regno del Sud nel frattempo era il teatro di uno scontro politico accanito tra il re e i partiti antifascisti, che chiedevano la decadenza sua e del governo Badoglio, entrambi discreditati per i lunghi rapporti col fascismo e soprattutto disprezzati dopo la fuga da Roma. La situazione di stallo che si era creata fu risolta dall’arrivo del capo del PCI, Palmiro Togliatti, che propose un patto di unità nazionale per combattere la comune battaglia antitedesca e antifascista. Per quanto rifiutata dagli altri partiti della sinistra del CLN, questa proposta (l’operazione è nota come la svolta di Salerno), impegnò il re a lasciare dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) i suoi poteri al figlio Umberto, col titolo di Luogotenente del Regno. Badoglio fu sostituito da Ivanoe Bonomi, liberale antifascista presidente del CLN, a capo di un governo cui parteciparono tutti i partiti del CLN.

3. La Repubblica Sociale Italiana

I caratteri della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e la sua stessa legittimità sono molto discussi perché essa è considerata uno Stato “collaborazionista”, completamente asservito agli esclusivi interessi degli occupanti tedeschi.

Irrilevante il suo peso nel contesto internazionale: lo riconobbero solo Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Croazia. Un rifiuto venne da Spagna, Portogallo, Svezia, Turchia, Argentina nonché dallo Stato del Vaticano. Solo il Giappone appariva veramente interessato ed ebbe presso la RSI una regolare rappresentanza diplomatica. La sovranità dello stato si estendeva a territori limitati: a sud i suoi confini erano segnati dall’avanzare delle Forze Armate alleate; al nord-est dall’estendersi della sovranità diretta del Reich, per decisione di Hitler (11 settembre 1943), su due zone d’operazioni, sottratte alla sovranità italiana. La proclamazione fu annunciata fin dal 10 settembre 1943 da un gruppo di gerarchi fascisti fuggiti a Monaco alla fine di luglio; fu confermata dagli ordini di Mussolini, liberato dai tedeschi il 12 settembre, che ricostituiva il partito fascista, ne nominava il segretario (Alessandro Pavolini), ricostituiva la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale guidata da Renato Ricci, scioglieva ufficiali e soldati dal giuramento al re e ne dichiarava decaduti tutti i provvedimenti posteriori al 25 luglio. Un discorso di Mussolini fu trasmesso da Radio Monaco e captato in Italia il 18 settembre 1943. Mussolini accusava il re, gli alti comandi dell’esercito, la classe dirigente di averlo tradito ed esortava il popolo italiano a tornare a combattere a fianco dei tedeschi al fine di cancellare l’onta del tradimento nei confronti di questi ultimi, e a rivendicare l’onore dell’Italia. A questo appello non mancarono di rispondere giovani cresciuti nella scuola fascista e nelle organizzazioni di massa del regime.
I tedeschi impedirono che il governo si insediasse a Roma; nei mesi successivi gli apparati amministrativi dello Stato vennero sdoppiati e parte di essi fu trasferita al nord, in un’area compresa tra il Lago di Garda – dove presso Salò prese residenza Mussolini – e Milano, dove successivamente (autunno-inverno 1944-1945) si concentrarono i più importanti centri decisionali italiani e tedeschi. La presenza dell’alleato-occupante imponeva ai fascisti repubblicani di presentarsi come alleati fedeli del Reich ma autonomi da esso.

 

Il primo problema fu quello di ricostituire l’esercito. Le truppe italiane erano state catturate dalla Wehrmacht e, con l’eccezione di alcuni reparti di Camicie Nere schieratisi con i tedeschi, erano state avviate nei campi di internamento, dove gli Internati Militari Italiani – IMI non godevano nemmeno delle protezioni concesse ai prigionieri di guerra dalle convenzioni internazionali. Mussolini e il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate, volevano trarre dagli IMI gli uomini per costituire un esercito regolare. Hitler invece si oppose perché quelle che lui chiamava “Badoglio-truppen” non offrivano garanzia di tornare a combattere con efficienza. D’altra parte la propaganda per ottenere dagli Internati Militari Italiani l’adesione volontaria alla repubblica ebbe ben poco successo. Molto simile fu quanto avvenne in Italia, dove il governo della repubblica emanò, a partire dal dicembre 1943, una serie di bandi di leva, che dopo un successo iniziale molto dubbio, si tramutarono in un fallimento clamoroso. Inutilmente il governo fascista repubblicano pubblicò a più riprese bandi che per i renitenti prevedevano la pena di morte e ritorsioni contro i famigliari.

Con i soldati di leva e con i volontari vennero formate quattro divisioni (San Marco, Littorio, Monterosa e Italia) forti ciascuna dagli undici ai sedicimila uomini, inviate in Germania per l’addestramento e tornate in Italia a partire dall’agosto 1944. Furono schierate in parte sul fronte ligure al comando del maresciallo Graziani, inframmezzate alle truppe tedesche, e in parte inviate al confine nord-occidentale dove fronteggiarono soprattutto l’insorgenza partigiana. La repressione del “banditismo” costituì infatti il compito maggiore delle forze armate della repubblica sociale, al fine di sollevare la Wehrmacht da questi compiti. La RSI disponeva, oltre all’esercito, di milizie connotate politicamente e designate a compiti di polizia. Il corpo più numeroso (valutato fino a 150.000 uomini iniziali) fu la Guardia Nazionale Repubblicana, al comando di Renato Ricci, composta di Carabinieri, Polizia dell’Africa italiana e Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. I Carabinieri, invisi a tedeschi e a fascisti per la tradizionale devozione monarchica, furono oggetto di deportazione in Germania. Le restanti forze della GNR ebbero il compito di sorvegliare il territorio in collaborazione con la Polizia di Stato e agli ordini dei prefetti (denominati Capi provincia). La capacità della GNR risultò insoddisfacente per la scarsità dell’armamento e dell’addestramento. Alla metà di agosto del 1944 essa fu inserita nell’esercito come “prima arma combattente”, sottratta al comando di Renato Ricci e messa agli ordini diretti di Mussolini. Questo provvedimento non le tolse i compiti di polizia, contribuendo a un intreccio di poteri e di illegalità che rese poco credibile l’autorità della repubblica. A partire dalla fine del giugno 1944 furono costituite le Brigate Nere, milizie del Partito fascista repubblicano, al diretto comando del segretario del Partito, Alessandro Pavolini. Aveva pretese di autonomia la X flottiglia MAS, fanteria di Marina, comandata da Junio Valerio Borghese come se fosse una sua compagnia personale, in diretta alleanza con i tedeschi. Si aggiungevano poi una numerosa congerie di bande irregolari utilizzate da tedeschi e autorità repubblicane come strumenti di spionaggio e repressione antifascista (la Banda Carità, la Banda Koch, il reparto di Spiotta, la formazione “Mai Morti”).
La molteplicità dei centri di potere e la varietà delle truppe rifletteva un carattere di fondo della repubblica, eversivo e velleitario, che ambiva a costruire un rinnovato ordine sul modello del totalitarismo nazista. Il primo atto politico del nuovo regime fu l’Assemblea di Verona (14 novembre 1943) in cui venne presentato un programma repubblicano, antisemita e socializzatore. L’Assemblea pretese il processo ai traditori del 25 luglio: processati, condannati e fucilati nel successivo febbraio 1944. Scatenò anche una sanguinosa spedizione squadrista a Ferrara, per vendicare la morte del federale fascista (forse ucciso da fascisti locali). Nell’ambito della repubblica l’antisemitismo venne portato alle conseguenze più estreme, sia con provvedimenti direttamente promossi dal ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi (circolare del dicembre 1943 per l’internamento di tutti gli ebrei), sia con la collaborazione di assai numerosi “bravi italiani” alle razzie e alle deportazioni tedesche, sia infine con la propaganda razzista promossa da Giovanni Preziosi.

I tedeschi avevano dapprima pensato a un’occupazione del territorio italiano diretta ad asportare dall’Italia tutte le attrezzature industriali e le materie prime. Nei mesi dell’inverno 1943-’44 si impose invece il disegno sostenuto dall’ambasciatore Rudolph Rahn di utilizzare in Italia le strutture produttive e di concedere alla repubblica una relativa autonomia. In questo quadro prese corpo una riorganizzazione della produzione industriale italiana (opera del ministro dell’Economia corporativa Angelo Tarchi) che si serviva della collaborazione di una serie di Comitati industriali al fine di dar vita a una nuova struttura corporativa dell’economia italiana. Ma il progetto di socializzazione che nel frattempo Mussolini caldeggiava allarmò i tedeschi che ne temevano tanto le più lontane implicazioni ideologico-politiche quanto le ripercussioni più immediate sulla funzionalità produttiva. Malgrado l’opposizione tedesca, portavoce tra l’altro anche dei timori degli industriali italiani, i primi provvedimenti della legislazione socializzatrice furono emanati nel gennaio e nel febbraio 1944. La loro applicazione fu invece ritardata a lungo e prese consistenza solo nell’autunno successivo.
Nel corso dell’estate 1944 le forze partigiane nell’Italia settentrionale avevano conseguito importanti successi sia con il potenziamento dei loro effettivi sia con la liberazione di varie zone nel cuore dei territori occupati. La reazione delle truppe d’occupazione agli attacchi della guerriglia e all’estendersi delle forme di opposizione fu molto feroce e diede luogo a una serie di atti di repressione violenta (impropriamente definiti rappresaglie) soprattutto nelle aree dell’Italia centrale e in quelle dell’Italia settentrionale, che costarono la vita a migliaia di cittadini italiani inermi, donne vecchi e bambini compresi Questa situazione provocò tra l’altro anche forti tensioni con alcuni esponenti della Chiesa. Molti infatti tra i fascisti avrebbero voluto che i rapporti tra Chiesa cattolica e RSI volgessero a favore di Mussolini con una netta condanna del voltafaccia di Badoglio e del re. Per rivendicare la piena dignità e il carattere cattolico del fascismo repubblicano sorse anche un movimento a carattere semi-eretico, “Crociata Italica”.

A partire dall’autunno 1944 si delineò una nuova fase nella vita della repubblica: un forte inasprimento del confronto militare interno e della repressione, da una parte, e dall’altra l’intensificazione del dibattito e della propaganda sulla socializzazione. L’ultima fase “socializzatrice” della repubblica è collegata anche all’estremo tentativo di Mussolini di salvare la propria costruzione politica. Nell’autunno 1944 prese vita, e fu successivamente riconosciuto come legittimo dalle autorità fasciste, un Raggruppamento Socialista Nazionale, promosso e capeggiato da Edmondo Cione, già allievo di Benedetto Croce, convertitosi alle idee mussoliniane.
Nel frattempo altri (il segretario Pavolini prima di tutti) proponevano a Mussolini anche un’estrema difesa militare dei fascisti in un Ridotto Armato Repubblicano, che avrebbe dovuto essere costituito in Valtellina. Ed era forse proprio verso questo ridotto – peraltro inesistente – che si stava avviando Mussolini il 28 aprile 1945, dopo aver visto fallire i tentativi di mediazione per una resa concordata tramite il cardinale Arcivescovo di Milano, Schuster. Il duce fu individuato da una formazione partigiana nascosto in un camion tedesco presso Dongo. Fatto prigioniero, venne giustiziato il giorno seguente a Giulino di Mezzegra dal comandante “Valerio” in applicazione della sentenza di morte emessa contro di lui dal CLNAI; il suo corpo e quello di alcuni di coloro che lo avevano accompagnato nell’ultima fuga fu esposto in piazzale Loreto a Milano.

4. La Seconda Guerra Mondiale: Italia 1943-1945

Dopo la caduta del fascismo l’esercito anglo-americano si trovò a fronteggiare un nemico indebolito dalla defezione italiana ma duramente determinato a fermare le forze alleate. In seguito allo sbarco anglo-americano del luglio 1943, le truppe italo-tedesche si erano ritirate dall’isola il 17 agosto; passato lo stretto di Messina, gli alleati dovettero affrontare i tedeschi su un territorio montagnoso che offriva loro la possibilità di arroccarsi a difesa e di bloccare a lungo le forze avversarie. Il sanguinoso confitto terrestre fu accompagnato dall’attività delle forze aeree che infierirono sui territori meridionali, provocando vittime civili nelle città e nelle campagne.

 

Il 9 settembre 1943 la 5ª Armata americana sbarcò a Salerno mentre la Divisione aviotrasportata britannica occupava Taranto, dall’altra parte della penisola. Sotto la pressione di questo duplice attacco la 10ª Armata tedesca, che pure a Salerno aveva effettuato vigorosi contrattacchi, fu costretta a ripiegare verso nord.
Il 1° ottobre gli alleati occuparono Foggia e Napoli, che era insorta il 27 settembre (Quattro giornate di Napoli); ma nei mesi seguenti la loro avanzata segnò il passo tanto nel settore adriatico, dove l’8ª Armata britannica si fermò a Ortona, sia nel settore tirrenico la 5ª Armata americana stentò a superare le linee di difesa tedesche (Linea Bernhard o Winter Line). A metà dicembre 1943 entrarono in azione anche le truppe italiane del ricostituito Regio Esercito, che si segnalarono a fianco degli alleati nella battaglia di Monte Lungo. Il 22 gennaio 1944 forze statunitensi sbarcavano ad Anzio, ma i tedeschi, favoriti anche dalle incertezze dei comandi americani, opposero una tenace resistenza sulla Linea Gustav, che venne spezzata solo tre mesi più tardi con un attacco a Cassino (11-19 maggio 1944), paese che controllava la valle del Liri, passaggio obbligato per l’ulteriore avanzata. L’esercito tedesco condusse la sua ritirata con grande abilità tattica malgrado la grande superiorità dei mezzi avversari. Liberata Roma il 4 giugno, le forze anglo-americane raggiunsero Firenze, insorta e liberata dalle forze del CLN della Regione Toscana, ma furono nuovamente arrestate sulla Linea Gotica, lungo l’Appennino tosco-emiliano. Il fronte appenninico tenne per tutto l’inverno 1944-1945 e crollò solo dopo l’offensiva alleata di primavera costringendo alla resa le forze tedesche in Italia, incalzate anche dalle insurrezioni delle città del nord, alla fine di aprile.

5. Antifascismo e Resistenza

L’occupazione tedesca fu male accolta dalla maggioranza della popolazione italiana. Ricordi risorgimentali e della Grande Guerra avevano fatto vivere a lungo l’immagine del “tedesco nemico secolare”. Il tentativo fascista di rendere popolare l’alleanza non aveva avuto successo e quell’ostilità venne rinnovata dallo spettacolo dei militari deportati e dalla convinzione che i tedeschi fossero causa del proseguimento del conflitto.
Nella cornice di tale stato d’animo fu affrontata la scelta cruciale: Regno del Sud e RSI si contendevano la lealtà degli italiani. Da una parte l’istituzione regia, simbolo dell’unità nazionale, che chiamava a battersi a fianco delle potenze antifasciste, e dall’altra il fascismo, che si appellava all’onore di un popolo che non avrebbe dovuto tradire il suo alleato. Tra questi due pretendenti un terzo avanzava le sue ragioni: quello che si opponeva tanto al fascismo quanto al re in nome di una Italia nuova, democratica e antifascista. Tale era la scelta che si prospettava agli italiani.
Le forze dell’antifascismo, riunite in quelli che sull’esempio francese si chiamarono Comitati di Liberazione Nazionale – CLN, si posero il problema di come affrontare sul terreno militare, oltre che su quello ideale, i fascisti e i nazisti. L’organizzazione della lotta armata non fu facile né semplice: c’erano problemi di armamento, di organizzazione, di addestramento e c’erano anche antifascisti riluttanti a scendere in un confitto armato. Su questi ultimi fu rovesciata l’accusa infamante di attendismo, che in molti casi non rendeva loro giustizia.
Le prime azioni di guerra furono attuate da militari che non vollero arrendersi ai tedeschi nelle isole greche, o in alcune città italiane o infine da militari sfuggiti alla cattura (La prima Resistenza e la Resistenza militare). La superiorità di mezzi e di uomini dispiegata dalla Wehrmacht ebbe presto ragione del coraggio disperato di questi italiani. Successivamente, con l’incoraggiamento e la propaganda dei partiti antifascisti, nuove reclute vennero a ingrossare le fila dei ribelli perché la RSI pubblicò bandi di leva (bandi Graziani) per creare un proprio esercito regolare. La renitenza, dopo un primo tiepido successo della chiamata alle armi, si ampliò alla maggioranza dei coscritti sia per il rifiuto della guerra in quanto tale sia per il rifiuto dello Stato fascista.

 

La Resistenza fu un fenomeno multiforme, legato a condizioni ambientali e a congiunture specifiche; non esistette un unico modello né per il reclutamento né per l’organizzazione. Ci furono formazioni partigiane politicamente qualificate e ci furono formazioni partigiane autonome, le quali professavano in genere lealtà monarchica ed erano indicate come “badogliane”. I partiti riuniti nel CLN dell’Alta Italia CLNAI si impegnarono, pur attraverso un vivace dibattito interno, alla creazione di un comando unico che assunse la guida del Corpo Volontari della Libertà – CVL. Successivi accordi con il governo di Roma e con gli alleati portarono al riconoscimento formale della struttura e alla delega dei poteri per l’Alta Italia.
La guerriglia non fu condotta solo sulle montagne: era diretta a non dare tregua agli avversari, che dovevano sentirsi insicuri ovunque. Nelle città il compito di creare questa condizione di guerriglia fu assunto dai Gruppi d’Azione Patriottica – GAP. Nella prospettiva dell’insurrezione vennero poi costituite le Squadre d’Azione Patriottica – SAP, con compiti diversi ma ugualmente agenti nelle città.

6. La Resistenza civile, il ruolo delle donne e la questione femminile

Resistenza non fu solo un fenomeno militare. Grande importanza ebbe anche quella che viene definita la Resistenza civile in cui fondamentale fu il ruolo delle donne. Una Resistenza fatta non solo di aiuti ai partigiani combattenti o ai perseguitati per ragioni di razza; ma anche più semplicemente di un tacito rifiuto della dittatura dominante.

In questo contesto va considerato anche il ruolo della Chiesa cattolica: nel corso della guerra e specificamente nel 1943-1945 in Italia la gerarchia ecclesiastica e il Vaticano si astennero dallo schierarsi apertamente per l’una o per l’altra parte; al clero toccò per lo più una funzione caritativa e di protezione, assolvendo ai suoi compiti istituzionali, pur con diversi atteggiamenti dei vari sacerdoti. Il papa Pio XII (Eugenio Pacelli) rivendicava al mondo cattolico un ruolo di guida morale: nello sfacelo di ogni autorità, la Chiesa di Roma voleva ergersi come la sola istituzione in grado di reggere.

E in effetti così appariva a una parte non piccola del Paese. Nel mondo politico la nuova formazione che si richiamava agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa fu la Democrazia Cristiana (DC) a cui, pur con qualche diffidenza, il Vaticano guardava con approvazione, mentre furono sconfessati altri gruppi cattolici: il Partito della Sinistra cristiana, ad esempio, i cui maggiori dirigenti confluirono nel PCI nel dopoguerra. Non mancarono nel panorama delle forze combattenti resistenziali formazioni dichiaratamente cattoliche (le Fiamme Verdi), mentre dall’altra parte della barricata ci furono sacerdoti che si schierarono con la RSI.

Nel quadro di una guerra tanto feroce, è stato spesso messo in secondo piano il ruolo di una componente essenziale del panorama italiano: le donne. Le donne, già al momento della resa dell’8 settembre, quando l’esercito si dissolse, diedero vita a quello che è stato definito un “maternage di massa”, una delle espressioni specificamente femminili della Resistenza civile italiana. Grazie alle donne, le famiglie, sostanzialmente matriarcali – data l’assenza generalizzata degli uomini, perlopiù sotto le armi – accolsero in casa i fuggitivi, i renitenti, i disertori, li sfamarono, fornirono abiti civili, li nascosero in quelle che diventeranno le case di latitanza. Non si trattò di un impegno privo di conseguenze: chi ospitava fuggitivi fu punito, quando scoperto, con l’arresto, con la tortura e la morte. Senza il fondamentale appoggio della popolazione non combattente e delle donne in particolare – che furono parte essenziale della cosiddetta Resistenza “civile” – difficilmente il movimento partigiano avrebbe potuto radicarsi, svilupparsi e, alla fine, vincere. Le donne, in assenza della gran maggioranza della popolazione maschile, dovettero anche sopperire da sole alla conduzione famigliare, alla crescita dei figli e allo svolgimento delle mansioni lavorative.

L’universo femminile tuttavia non sfuggì completamente alla radicalizzazione politica che investiva l’intero Paese di fronte alla guerra civile. Molte furono coinvolte nell’accesa mobilitazione politica, altre scelsero la via di un impegno più diretto. Ci furono così donne che aderirono alla Resistenza, militando in formazioni combattenti o fornendo i servizi informativi e di sussistenza essenziali, col ruolo di staffette, per un esercito combattente; e ci furono donne che entrarono al servizio della RSI nel cosiddetto Servizio Ausiliario Femminile.

7. Dalla guerriglia alla Liberazione

Obiettivo comune a tutte le forze della Resistenza era la cacciata dei tedeschi, ma non tutti concordavano sul modo per arrivare a questo successo. Le forze moderate sostenevano sarebbe stato meglio attendere l’arrivo degli alleati, mentre le sinistre caldeggiavano un’azione popolare di massa che dimostrasse la volontà antifascista del popolo italiano.
Un anticipo del successo partigiano era stato il breve e intenso periodo dell’estate 1944, quando in diverse aree dell’Italia settentrionale erano state costituite le Repubbliche partigiane, parziali ma significativi esperimenti di autogoverno democratico. Tra l’ottobre e il novembre 1944 tuttavia la maggior parte delle repubbliche era caduta per la controffensiva della Wehrmacht che, attestatasi sulla Linea Gotica, aveva potuto liberare parte delle sue forze e impiegarle contro i “ribelli”. Gli anglo-americani, rassegnati a una lunga pausa invernale avevano invitato l’esercito partigiano a sospendere le sue attività belliche (proclama Alexander).
L’inverno 1944-1945 mise perciò a dura prova la sopravvivenza stessa del movimento partigiano; ma l’offensiva di primavera mise nuovamente in moto il fronte. Le prospettive di un imminente crollo dell’esercito tedesco spinsero il CVL a diramare l’ordine insurrezionale. Una dopo l’altra le città del Nord diedero il via all’insurrezione e i CLN assunsero i poteri loro delegati dal governo di Roma.
L’arrivo degli alleati nelle città italiane fu accolto con grande entusiasmo delle popolazioni; ma allo stesso tempo tarpò le ali a molte illusioni. Fu instaurato un Governo Militare Alleato (GMA) che assunse i pieni poteri subordinando alla propria approvazione tutti i decreti del CLNAI e dei vari CLN regionali; ai partigiani fu imposta la consegna delle armi. Ciò non impedì che seguisse una fase di violenza postbellica, che era eredità del conflitto durissimo tra RSI e forze partigiane, con i suoi terribili aspetti di guerra civile, oltre ad essere effetto dell’abitudine alla violenza e alla morte, incentivata dalla ferocia fascista e nazista. Ai confini orientali si scatenò la vendetta delle popolazioni slave contro gli italiani, esponenti di una nazione che aveva occupato e oppresso quelle terre con violenza non minore dei nazisti. Dal maggio 1945 prese il via dall’Istria un esodo che negli anni successivi portò in Italia circa 300.000 persone.

 

Nell’Italia l’esautorazione dei CLN alla fine del 1945 aprì la strada alla restaurazione dei poteri tradizionali: i prefetti della Liberazione vennero sostituiti da prefetti di carriera, gran parte dei quali avevano servito sotto il fascismo e spesso anche sotto la repubblica sociale. Fu il segno del fallimento dell’epurazione: venne clamorosamente mancato l’obiettivo di allontanare chi aveva collaborato con la dittatura, con la RSI o con i tedeschi. Lo Stato tradizionale si ripresentava come vincitore, anche se i movimenti popolari rivendicavano il loro ruolo non solo al Nord, con la Resistenza militare e le lotte operaie, ma anche al Sud dove si era sviluppato per la prima volta nella storia dell’Italia unita un grande movimento contadino meridionale rivendicante i diritti dei lavoratori senza terra, oppressi dai grandi latifondisti.

1. Nazionalismo e guerra

Decisiva caratteristica del fascismo furono fin dagli inizi le sue scelte sul piano internazionale. Il fascismo era nato dalla guerra e dalla guerra trasse gran parte dei suoi simboli e della sua mitologia: i riti funerari e guerrieri, il culto della forza e del coraggio; e soprattutto il culto della patria, declinato secondo l’ideologia del nazionalismo. Il nazionalismo aveva predicato che il motore della storia era rappresentato dalla lotta tra le nazioni e non dalla lotta di classe, come insegnava la dottrina marxista; e il fascismo fece di questo assioma il cardine della sua azione internazionale. La questione adriatica, il colpo di mano su Fiume e D’Annunzio, la Vittoria mutilata non furono solo temi propagandistici ma divennero anche direttive di politica estera. Per il fascismo comunque la politica estera non coincise completamente con quella del nazionalismo: fu una parte e uno strumento per la costruzione dello Stati totalitario.

 

Nella politica estera fascista possiamo distinguere (fino al 1940) tre fasi:

1° fase 1922- 1925. Il fascismo seguì le linee della tradizione liberale per inserirsi negli equilibri europei, alternando l’appoggio al rigido atteggiamento francese sulla questione delle riparazioni tedesche all’avvicinamento all’Inghilterra; nei Balcani cercò buoni rapporti anche la Jugoslavia, considerato nemica a causa delle rivendicazioni adriatiche, e si spinse fino al riconoscimento diplomatico dell’URSS. Un solo atto di fragorosa affermazione di forza: l’occupazione di Corfù nel 1923, indirizzata a intimidire la Grecia.

2° fase 1925 -1932. L’Italia fascista appoggiò le pretese di revisione dei trattati di Versailles sostenute soprattutto dall’Ungheria; mirò a scalzare l’influenza francese nei Balcani e a isolare la Jugoslavia fornendo larghi aiuti a tutti i movimenti di stampo fascista in area balcanica, tra cui quello del «duce croato» Ante Pavelic. Negli stessi anni proseguiva la riconquista violenta della Libia.

3° fase 1933 -1939. La conquista del potere in Germania da parte di Hitler mise in luce consonanze ideologiche ma suscitò anche allarme per l’espansionismo nazista che non tardò a palesarsi. Nel 1934 Mussolini decise perciò di difendere l’Austria contro l’Anschluss voluto da Hitler, anche in nome dell’espansione economica italiana nei Balcani. Ne conseguì un riavvicinamento con la Francia, dopo il quale Mussolini lanciò l’attacco all’Etiopia: era l’attuazione del programma imperiale. La guerra d’Etiopia, condotta in opposizione alla Società delle Nazioni che comminò al paese aggressore quelle che Mussolini definì le inique sanzioni, lasciò l’Italia isolata sul piano internazionale; di qui venne dall’ottobre 1936 il riavvicinamento sempre più stretto alla Germania. La prima prova dell’alleanza fu la comune partecipazione alla guerra civile di Spagna. L’alleanza tra i due totalitarismi si precisò con il patto anti-Comintern nel 1937. L’appoggio italiano si manifestò ancora nel settembre 1938 alla conferenza di Monaco, che consentì a Hitler l’occupazione dei Sudeti. Ma l’alleanza venne formalizzata solo nel 1939, proprio mentre Hitler occupava Boemia e Moravia, atto finale dello smembramento della Cecoslovacchia, compiuto all’insaputa dell’alleato italiano. La risposta di Mussolini fu l’occupazione dell’Albania, di cui Vittorio Emanuele III fu proclamato re.
Guidato dall’orgoglio nazionalista e dal disegno di imporsi sul piano internazionale, il fascismo si propose di fare degli italiani un popolo guerriero, impegnò il paese in imprese che dovevano dargli grandezza e prestigio, facendo allo stesso tempo di questi temi un formidabile strumento di propaganda e di esaltazione del suo duce. Ma alla fine scelse, pur diffidandone, un alleato che prometteva di esser completamente affidabile sul piano della forza, senza che l’Italia fosse in grado di stargli alla pari. Questa parabola della politica estera, che sboccò infine nell’intervento nella guerra scatenata dalla Germania, rivela le debolezze dell’Italia fascista; ma fino alla fine illuse e sedusse la maggior parte degli italiani.