La violenza dello squadrismo fascista
Il termine «squadrismo» richiama storicamente l’esplosione della violenza fascista, a cui si assistette in Italia tra il 1919 e il 1922, esercitata nei confronti di oppositori politici, sedi della loro attività e simboli della loro fede politica.
Questo fenomeno politico-sociale non fu utilizzato uniformemente sull’intero territorio della penisola ma fu concentrato soprattutto in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Puglia: vale a dire nelle regioni in cui – durante il biennio 1919-1920 – il Partito socialista e il Partito popolare avevano conquistato democraticamente l’amministrazione di numerosissimi Comuni e gettato le basi per sostanziali riforme economico-sociali, regioni nelle quali i sindacati operai e contadini avevano ottenuto importanti vittorie sul padronato, rappresentando una minaccia per l’ordine sociale e il potere costituito.
Forza paramilitare organizzata, lo squadrismo fu parte integrante del successo riportato dal fascismo come movimento politico e valse da strumento essenziale della sua ascesa al potere.
Le squadre d’azione
Le azioni politiche del fascismo del primo periodo furono caratterizzate soprattutto per l’uso di una violenza inusitata esercitata nei confronti di sindacalisti, consiglieri municipali, attivisti, militanti e parlamentari dei partiti antifascisti (socialisti, comunisti, popolari, anarchici, repubblicani, ecc.).
Le prime clamorose azioni dei fascisti ebbero luogo a Trieste (13 luglio 1920) e a Bologna (21 novembre 1920). Nel primo caso, fu attaccata la sede di un’associazione che, nel capoluogo giuliano, difendeva i diritti e l’identità culturale della minoranza slava; nella città emiliana, invece, i fascisti cercarono di impedire l’insediamento del nuovo sindaco socialista.
A partire da quel momento, il movimento fascista si organizzò in «squadre d’azione» che organizzavano «spedizioni punitive» il cui obiettivo era ridurre al silenzio gli oppositori politici: interrompevano brutalmente comizi e manifestazioni di avversari politici, aggredendo i partecipanti e sparando sulla folla; assaltavano e devastavano sedi di quotidiani e partiti; uccidevano i sindacalisti che tutelavano gli interessi dei contadini e degli operai; picchiavano i sindaci e gli assessori delle giunte municipali socialiste e cattoliche, fermando i perseguitati per strada, prelevandoli dai luoghi di lavoro o di ritrovo ma più spesso irrompendo nelle loro case.
Subirono attacchi anche i centri vitali della presenza degli oppositori nei territori: vennero devastate sistematicamente le tipografie e le sedi dei partiti, eliminando così la possibilità di comunicare con aderenti e simpatizzanti; furono distrutti i luoghi di ritrovo delle leghe contadine cattoliche e di sinistra, nonché le sedi dei sindacati antifascisti, per disgregare i legami organizzativi di queste associazioni con i lavoratori. Agli assalti seguivano l’oltraggio dei simboli (quadri, bandiere, ecc.) sottratti agli oppositori, il rogo di suppellettili e pubblicazioni sulla pubblica via.
Nel primo semestre del 1921 vennero assaltate e distrutte dalle squadre fasciste, nella sola pianura padana: 17 sedi di giornali e tipografie, 59 Case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 cooperative, 83 Leghe contadine, 8 Società di mutuo soccorso, 141 sezioni socialiste o comuniste, 100 circoli di cultura, 10 biblioteche popolari o teatri, 28 sedi di sindacati operai, 53 circoli operai ricreativi, una università popolare. (Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna. La Prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Milano, Feltrinelli, 1996, vol. VIII, p. 353).
Nel 1921 lo squadrismo passò dalle azioni singole alle mobilitazioni di centinaia di fascisti, su base interprovinciale o interregionale: iniziarono ad essere organizzate vere e proprie campagne di terrore durante le quali gli squadristi dilagavano nei territori di una provincia. Esemplari di tale pratica intimidatoria furono le cosiddette “colonne di fuoco”, create a Ferrara da Italo Balbo: sotto la sua guida, gli squadristi battevano la pianura incendiando le case dei sindacalisti e dei militanti antifascisti più noti. Agli incendi, ai pestaggi faceva seguito la messa al bando di dirigenti e amministratori socialisti, democraticamente eletti, costretti a rassegnare le dimissioni dalle cariche pubbliche, abbandonare nelle mani degli avversari le sedi delle leghe, i beni delle cooperative, costretti ad emigrare all’estero se volevano salva la vita.
Intere regioni vennero “redente” (come affermavano i fascisti) con una serie di azioni da vera e propria guerra civile. Uno degli episodi più tristemente famosi fu l’occupazione militare di Grosseto, roccaforte socialista della Toscana meridionale, avvenuta il 29 e il 30 giugno 1921. Arrivati di notte per cogliere il nemico di sorpresa, gli squadristi scatenarono la caccia agli antifascisti nelle strade della città e, dopo aver avuto la meglio, diedero il via a un’operazione di rastrellamento su vasta scala, durante la quale passarono al setaccio una casa dopo l’altra alla ricerca di quelli che definivano “sovversivi”. Il mattino dopo, ritirandosi da Grosseto, si erano lasciati alle spalle diversi morti e una trentina di feriti.
Così, nel corso del 1921, i fascisti riuscirono a sconvolgere la campagna elettorale dei partiti antifascisti e a sovvertire l’egemonia socialista e cattolica negli enti locali.
Nel 1922, poi, lo squadrismo si trasformava in possente movimento di massa, in grado di occupare militarmente i centri urbani (Ferrara, Ravenna, Bologna, Trento, ecc.), in una sfida diretta al sistema di potere liberale.
Simboli, riti, culti dello squadrismo fascista
Organizzate militarmente, le squadre raccoglievano gli elementi più animosi e temerari, mediamente tra i dieci e i quindici, in prevalenza reduci di guerra e studenti non ancora ventenni, desiderosi di strappare le strade alla sinistra, ed erano guidate per lo più da ex ufficiali della Prima guerra mondiale.
I gruppi si intitolavano a martiri della patria (Cesare Battisti, Enrico Toti, ecc.) o della causa fascista o, più spesso, assumevano quale denominazione motti programmatici («Me ne frego», «Disperata») o simboli del culto virile della violenza o dell’operazione di pulizia che avrebbe spazzato via i “nemici interni” della nazione («Asso di bastone», «Ramazza»).
Le tecniche di aggressione delle squadre erano brutalmente dirette: quando non venivano adoperate armi da fuoco, si faceva largo uso di manganelli, pugnali, bombe a mano, d’uso comune anche i tirapugni di ferro e i nerbi di bue, sempre per “purificare” il corpo della nazione.
La minore delle punizioni riservata agli avversari politici – la somministrazione di una grande quantità di olio di ricino – veniva utilizzata per degradarli e ridicolizzarli e, per gli squadristi, aveva un suo rozzo significato simbolico: le vittime se la “facevano addosso”, materialmente per effetto del lassativo e moralmente per la loro indegnità di “traditori della patria”.
Una parte significativa dell’opinione pubblica iniziò ad abituarsi a tali atti, valutandoli con crescente consenso tanto che le squadre d’azione ingrossarono considerevolmente le loro file: nel corso del 1922 figuravano tra gli squadristi non solo rappresentanti dei ceti privilegiati ma anche liberi professionisti, commercianti, impiegati dell’amministrazione pubblica, fattori, piccoli proprietari terrieri, affittuari e coloni.
Resistenze
Sporadicamente socialisti, anarchici, comunisti, popolari e repubblicani unirono le loro forze – soprattutto attraverso l’esperienza degli «Arditi del popolo» – per difendersi dalle aggressioni fasciste anche sul piano militare.
Due esempi su tutti.
Nella primavera del 1921 a Sarzana, gli Arditi del popolo resistettero con successo alle incursioni squadriste. All’arrivo di rinforzi fascisti dalle città vicine il comandante dei carabinieri del posto si interpose tra le due parti, non rinunciando al proprio ruolo di tutore dell’ordine: al tentativo di sfondamento dei fascisti rispose aprendo il fuoco e facendo fallire la spedizione punitiva.
Alla fine di luglio del 1922 i sindacati di sinistra (uniti sotto la sigla “Alleanza del lavoro”) indicevano uno sciopero generale nazionale contro la violenza fascista e per riportare la legalità nel paese. Gli squadristi mettevano a ferro e fuoco il paese: assalivano i lavoratori in sciopero, occupavano Municipi e palazzi comunali, distruggevano decine di Camere del lavoro, sedi socialiste e comuniste, cooperative e leghe bracciantili. Nonostante i duri scontri che si ebbero a Genova, Alessandria, Livorno e Bari l’agitazione fallì.
Parma fu l’unica città nella pianura padana a respingere i fascisti. Mentre, nella notte del 31 luglio, i primi squadristi capeggiati da Italo Balbo si concentravano intorno alla città, Guido Picelli, parlamentare socialista, ordinava ai suoi «Arditi del popolo» di prendere le armi e insorgere. Con l’aiuto della popolazione del quartiere Oltretorrente, i fascisti venivano respinti per vari giorni, con forti perdite. Le camicie nere abbandonavano Parma il 6 agosto lasciando sul campo trentanove morti e centocinquanta feriti. I caduti tra i difensori della città erano quattro, tra i quali un ragazzo di 14 anni. Un quinto cittadino veniva ucciso dai fascisti mentre stava camminando.
Queste iniziative restarono però di portata locale e non riuscirono a fermare la marcia trionfale del fascismo. Dinanzi ai reiterati assalti degli squadristi, le infrastrutture del movimento socialista organizzato collassarono.
Il successo degli squadristi
Oltre all’impreparazione – o all’impossibilità – delle forze socialiste e cattoliche nel difendersi, altre ragioni spiegano il successo del movimento, prima fra tutte, la debolezza e l’incoerenza del governo liberale. La sua politica apparve spesso esitante e non sempre congruente: nell’opinione di uomini come Giolitti gli “eccessi” degli squadristi erano da disapprovare (e a tratti cercarono di rispondervi con misure repressive) ma restavano encomiabili il loro fervente patriottismo e l’acceso antisocialismo.
In occasione delle elezioni politiche del 1921, poi, Giolitti arrivò a includere i Fasci di combattimento nelle liste del cosiddetto «Blocco nazionale», legittimando l’esistenza delle squadre d’azione e mutandone il segno: da milizia privata a strumento d’ordine dello schieramento borghese. La classe politica liberale al governo pensava, in questo modo, di usare provvisoriamente il fascismo per attaccare il Partito socialista e azzerare la conflittualità sociale, salvo poi non essere più in grado di arrestarne la crescita.
Oltre a ciò, vari soggetti economici e politici ebbero interesse a far crescere il movimento fascista.
I grandi possidenti terrieri finanziarono lo squadrismo per annientare le leghe contadine e abbattere la loro forza contrattuale nelle campagne. Anche molti industriali, allarmati dalle occupazioni delle fabbriche del 1920, sostennero economicamente le squadre come milizie private in funzione antisocialista e videro positivamente l’ascesa del fascismo in quanto forza antibolscevica e protettrice della proprietà privata.
Alla fine del 1920, lo squadrismo godeva di vaste simpatie in quasi tutti gli ambienti conservatori e trovava l’avallo della grande stampa di informazione – fatto importante per l’influenza che essa aveva sull’opinione pubblica della media e piccola borghesia – che tenne un atteggiamento tutt’altro che imparziale nel descrivere gli avvenimenti.
Connivenze
Mentre vari soggetti sostenevano economicamente e politicamente il partito fascista e lo squadrismo, facendone aumentare capacità di azione e consenso nell’opinione pubblica, le simpatie, la tolleranza, a volte l’aperta collusione degli organi dello Stato (prefetti, questori, magistrati, forze dell’ordine ed esercito) ne assicurarono libertà di manovra e una sempre maggiore impunità nelle azioni.
Con la fine del 1920 e soprattutto nel 1921, la magistratura non pose un freno agli abusi squadristi: spedizioni contro consiglieri comunali e provinciali rimaneva spesso impunite, aggressioni mortali venivano minimizzate, versioni difensive inattendibili erano prese per buone e, sovente, giudici compiacenti usavano criteri diversi per valutare situazioni simili a seconda che gli imputati fossero fascisti o socialisti.
L’atteggiamento dei corpi di polizia (carabinieri, ufficiali di polizia, guardie regie) era accondiscendente e/o omissivo nei confronti dei fascisti quando non favoriva la riuscita delle loro spedizioni: arrestando e disarmando i socialisti, permettendo che i fascisti si abbandonassero in modo indisturbato alle loro violente azioni, alle quali spesso partecipavano direttamente.
Le forti complicità si tradussero, ai vertici delle Forze armate, soprattutto nella concessione sottobanco di armi e mezzi di trasporto.
Tale atteggiamento connivente è dimostrato da una statistica ufficiale, secondo cui, dall’inizio dell’anno fino all’8 maggio 1921, risultavano all’autorità di Pubblica Sicurezza 1.073 casi di violenza tra socialisti e fascisti, in conseguenza dei quali, però, erano stati arrestati 1.421 socialisti e solo 396 fascisti. (Renzo De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966, vol. I, p. 35).
Le vittime
Le spedizioni punitive delle squadre d’azione avevano un unico obiettivo: costringere al silenzio l’avversario politico, isolarlo dal consesso civile, farlo allontanare dal territorio, o annientarlo fisicamente. Gli assassinii dei “sovversivi”, nome con cui venivano apostrofati i militanti di sinistra, furono numerosissimi, “atti esemplari” di un percorso verso la presa del potere che passava attraverso l’eliminazione del “nemico interno”.
Sebbene il numero esatto dei caduti per mano fascista prima della Marcia su Roma non si conosca, essi sarebbero stati circa tremila tra il 1921 e il 1922; di questi, seicento sarebbero stati socialisti. (Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 321). Nel complesso, un numero imponente, che rappresenta un preciso indicatore della propensione dei fascisti a impiegare la violenza nella lotta politica.
Gli squadristi uccisi fra il 1919 e la Marcia su Roma, invece, furono in tutto 425, di cui 4 nel 1919, 36 nel 1920, 232 nel 1921 e 153 fra il 1º gennaio e il 31 ottobre 1922. (Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003, p. 169).