1943-1945

La Resistenza

1943-1945


Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere: che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro a un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettate una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio, sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare. Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti. Ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi e il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su noi. – Estratto della lettera di Giacomo Ulivi di anni 19, studente. Fucilato per rappresaglia a Modena il 10 novembre 1944, da plotone della GNR. Medaglia d’Argento al Valor Militare.

1. La crisi del fascismo

Al malessere del Paese rispondeva l’indebolimento del Partito Nazionale Fascista. Non calavano certo le iscrizioni, che erano obbligatorie ed erano tanto più richieste a tutti i cittadini in quegli anni, quando dovevano attestare la fiducia nelle sorti del conflitto. Ma la dirigenza del PNF non riusciva a rinnovarsi o a esprimere nuovi leader per resuscitare i passati consensi; il mastodontico partito restava affidato ai rituali escogitati da Achille Starace. Per rispondere a tale vuoto Mussolini lanciò una demagogica campagna anticapitalista, a cui non corrisposero provvedimenti di giustizia sociale o di miglioramenti salariali (sindacati fascisti), mentre proseguiva e si faceva più oppressiva la persecuzione degli ebrei.
La drammatica situazione militare e politica richiedeva soluzioni drastiche: dopo aver sconfitto le truppe dell’Asse in Africa, e mentre si consumava la tragedia della ritirata di Russia, gli anglo-americani attuavano uno sbarco in Sicilia (10 luglio 1943) con un grande apparato di forze e iniziavano ad avanzare verso l’Italia peninsulare. Appariva ormai ineluttabile la necessità italiana di ritirarsi dal conflitto; ma un debole Mussolini – anch’egli conscio della grave situazione – non riuscì nemmeno a prospettare a Hitler questa soluzione nell’incontro di Feltre (19 luglio 1943, proprio nel giorno del bombardamento di Roma).
Di questa soluzione si erano invece andati convincendo sia i circoli militari, sia lo stesso re, sia gran parte delle alte cariche del PNF. Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo, riunito dopo una lunga sospensione, votò una risoluzione per chiedere al re di riprendere i poteri che lo Statuto gli assegnava in quanto capo delle Forze Armate.

Convinto della ineluttabilità della sconfitta, Vittorio Emanuele III si appoggiò alla risoluzione del Gran Consiglio per rovesciare la situazione senza le remore legalitarie che aveva addotto nel 1924 per non scalzare il simpatico giovanotto in camicia nera. Arrestato e imprigionato Mussolini, il re nominò capo del governo Pietro Badoglio, che instaurò nei 45 giorni successivi alla sua nomina una autentica dittatura militare, utilizzando l’esercito per reprimere tutte le manifestazioni popolari indirizzate a chiedere “pace e libertà”. Badoglio e il re temevano le reazioni tedesche al rovesciamento delle alleanze, ma nello stesso tempo tardavano a portare a conclusione le trattative avviate in gran segreto.
La condotta ambigua del governo italiano indusse gli alleati a scatenare sulla penisola, alla metà d’agosto 1943, una serie di bombardamenti tra i più distruttivi dell’intera guerra.
I partiti antifascisti, che si erano ricostituiti o che andavano costituendosi, non furono legalmente riconosciuti anche se i loro esponenti in carcere furono liberati, con gradualità in modo da ostacolare le sinistre. Vennero tuttavia costituiti in diverse città e a Roma stessa dei Comitati delle Opposizioni che intendevano premere in senso democratico sulle autorità di governo, mentre con scioperi e manifestazioni di piazza si allargava la protesta popolare contro il proseguimento del conflitto.

2. Armistizio e occupazione tedesca

Al termine di lunghe e, da parte italiana esitanti, trattative con i comandi alleati il generale Castellano firmò a Cassibile l’armistizio il 3 settembre 1943. Esso prevedeva la resa incondizionata dell’Italia, la consegna della flotta e la successiva dichiarazione di guerra alla Germania. La reazione tedesca fu immediata e preparata da tempo: dalla fine di luglio era iniziato l’afflusso di nuove truppe che all’8 settembre occuparono il paese, disarmando l’esercito in Italia, nei Balcani e in Grecia e avviando i militari nei campi di internamento tedeschi, ovvero gli Internati Militari Italiani.
La cattura di 600.000 uomini senza una strategia di resistenza guidata dai responsabili dell’apparato militare fu resa possibile dall’ignavia delle re e degli alti comandi delle Forze Armate, che fuggirono da Roma per mettersi sotto la protezione degli Alleati dove costituirono nelle provincie meridionali il Regno del Sud.
In contrapposizione al governo formalmente legittimo del Savoia sorse, alleata dei tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana, a capo della quale si pose Mussolini, liberato dalla prigione del Gran Sasso dall’Obersturmfuhrer Skorzeni. La repubblica governava i territori al nord della linea del fronte, con l’eccezione dei territori nordorientali, definiti teatro di operazioni militari (Alpenvorland e Adriatische Küstenland) e di fatto annessi al Terzo Reich. Completamente sottomessa agli ordini dell’occupante sul piano militare e politico, la repubblica tentò anche di progettare un nuovo ordinamento politico e sociale ispirato al modello nazista. Ma il nocciolo era l’istituzione dei Consigli di Gestione nelle fabbriche che avrebbero dovuto porre fine al sistema capitalista: una manovra demagogica che allarmò i tedeschi e i padroni italiani ma che venne rifiutata dalle masse operaie come un trucco.
La Germania dal canto suo instaurò in Italia un articolato sistema di occupazione militare mirante a sfruttare tutte le risorse materiali ed umane del Paese per rafforzare il proprio potenziale bellico.

 

La nascita della Resistenza armata aprì un conflitto diretto non solo contro l’occupante straniero ma anche contro le Forze armate della RSI: fascisti e nazisti si impegnarono in un’opera di repressione che non risparmiò donne e civili disarmati in una vera e propria guerra ai civili. Dal canto loro i partigiani misero in atto una guerriglia che, malgrado l’evidente disparità di armamento, pose in non poche difficoltà gli occupanti.
Il Regno del Sud nel frattempo era il teatro di uno scontro politico accanito tra il re e i partiti antifascisti, che chiedevano la decadenza sua e del governo Badoglio, entrambi discreditati per i lunghi rapporti col fascismo e soprattutto disprezzati dopo la fuga da Roma. La situazione di stallo che si era creata fu risolta dall’arrivo del capo del PCI, Palmiro Togliatti, che propose un patto di unità nazionale per combattere la comune battaglia antitedesca e antifascista. Per quanto rifiutata dagli altri partiti della sinistra del CLN, questa proposta (l’operazione è nota come la svolta di Salerno), impegnò il re a lasciare dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) i suoi poteri al figlio Umberto, col titolo di Luogotenente del Regno. Badoglio fu sostituito da Ivanoe Bonomi, liberale antifascista presidente del CLN, a capo di un governo cui parteciparono tutti i partiti del CLN.

3. La Repubblica Sociale Italiana

I caratteri della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e la sua stessa legittimità sono molto discussi perché essa è considerata uno Stato “collaborazionista”, completamente asservito agli esclusivi interessi degli occupanti tedeschi.

Irrilevante il suo peso nel contesto internazionale: lo riconobbero solo Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Croazia. Un rifiuto venne da Spagna, Portogallo, Svezia, Turchia, Argentina nonché dallo Stato del Vaticano. Solo il Giappone appariva veramente interessato ed ebbe presso la RSI una regolare rappresentanza diplomatica. La sovranità dello stato si estendeva a territori limitati: a sud i suoi confini erano segnati dall’avanzare delle Forze Armate alleate; al nord-est dall’estendersi della sovranità diretta del Reich, per decisione di Hitler (11 settembre 1943), su due zone d’operazioni, sottratte alla sovranità italiana. La proclamazione fu annunciata fin dal 10 settembre 1943 da un gruppo di gerarchi fascisti fuggiti a Monaco alla fine di luglio; fu confermata dagli ordini di Mussolini, liberato dai tedeschi il 12 settembre, che ricostituiva il partito fascista, ne nominava il segretario (Alessandro Pavolini), ricostituiva la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale guidata da Renato Ricci, scioglieva ufficiali e soldati dal giuramento al re e ne dichiarava decaduti tutti i provvedimenti posteriori al 25 luglio. Un discorso di Mussolini fu trasmesso da Radio Monaco e captato in Italia il 18 settembre 1943. Mussolini accusava il re, gli alti comandi dell’esercito, la classe dirigente di averlo tradito ed esortava il popolo italiano a tornare a combattere a fianco dei tedeschi al fine di cancellare l’onta del tradimento nei confronti di questi ultimi, e a rivendicare l’onore dell’Italia. A questo appello non mancarono di rispondere giovani cresciuti nella scuola fascista e nelle organizzazioni di massa del regime.
I tedeschi impedirono che il governo si insediasse a Roma; nei mesi successivi gli apparati amministrativi dello Stato vennero sdoppiati e parte di essi fu trasferita al nord, in un’area compresa tra il Lago di Garda – dove presso Salò prese residenza Mussolini – e Milano, dove successivamente (autunno-inverno 1944-1945) si concentrarono i più importanti centri decisionali italiani e tedeschi. La presenza dell’alleato-occupante imponeva ai fascisti repubblicani di presentarsi come alleati fedeli del Reich ma autonomi da esso.

 

Il primo problema fu quello di ricostituire l’esercito. Le truppe italiane erano state catturate dalla Wehrmacht e, con l’eccezione di alcuni reparti di Camicie Nere schieratisi con i tedeschi, erano state avviate nei campi di internamento, dove gli Internati Militari Italiani – IMI non godevano nemmeno delle protezioni concesse ai prigionieri di guerra dalle convenzioni internazionali. Mussolini e il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate, volevano trarre dagli IMI gli uomini per costituire un esercito regolare. Hitler invece si oppose perché quelle che lui chiamava “Badoglio-truppen” non offrivano garanzia di tornare a combattere con efficienza. D’altra parte la propaganda per ottenere dagli Internati Militari Italiani l’adesione volontaria alla repubblica ebbe ben poco successo. Molto simile fu quanto avvenne in Italia, dove il governo della repubblica emanò, a partire dal dicembre 1943, una serie di bandi di leva, che dopo un successo iniziale molto dubbio, si tramutarono in un fallimento clamoroso. Inutilmente il governo fascista repubblicano pubblicò a più riprese bandi che per i renitenti prevedevano la pena di morte e ritorsioni contro i famigliari.

Con i soldati di leva e con i volontari vennero formate quattro divisioni (San Marco, Littorio, Monterosa e Italia) forti ciascuna dagli undici ai sedicimila uomini, inviate in Germania per l’addestramento e tornate in Italia a partire dall’agosto 1944. Furono schierate in parte sul fronte ligure al comando del maresciallo Graziani, inframmezzate alle truppe tedesche, e in parte inviate al confine nord-occidentale dove fronteggiarono soprattutto l’insorgenza partigiana. La repressione del “banditismo” costituì infatti il compito maggiore delle forze armate della repubblica sociale, al fine di sollevare la Wehrmacht da questi compiti. La RSI disponeva, oltre all’esercito, di milizie connotate politicamente e designate a compiti di polizia. Il corpo più numeroso (valutato fino a 150.000 uomini iniziali) fu la Guardia Nazionale Repubblicana, al comando di Renato Ricci, composta di Carabinieri, Polizia dell’Africa italiana e Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. I Carabinieri, invisi a tedeschi e a fascisti per la tradizionale devozione monarchica, furono oggetto di deportazione in Germania. Le restanti forze della GNR ebbero il compito di sorvegliare il territorio in collaborazione con la Polizia di Stato e agli ordini dei prefetti (denominati Capi provincia). La capacità della GNR risultò insoddisfacente per la scarsità dell’armamento e dell’addestramento. Alla metà di agosto del 1944 essa fu inserita nell’esercito come “prima arma combattente”, sottratta al comando di Renato Ricci e messa agli ordini diretti di Mussolini. Questo provvedimento non le tolse i compiti di polizia, contribuendo a un intreccio di poteri e di illegalità che rese poco credibile l’autorità della repubblica. A partire dalla fine del giugno 1944 furono costituite le Brigate Nere, milizie del Partito fascista repubblicano, al diretto comando del segretario del Partito, Alessandro Pavolini. Aveva pretese di autonomia la X flottiglia MAS, fanteria di Marina, comandata da Junio Valerio Borghese come se fosse una sua compagnia personale, in diretta alleanza con i tedeschi. Si aggiungevano poi una numerosa congerie di bande irregolari utilizzate da tedeschi e autorità repubblicane come strumenti di spionaggio e repressione antifascista (la Banda Carità, la Banda Koch, il reparto di Spiotta, la formazione “Mai Morti”).
La molteplicità dei centri di potere e la varietà delle truppe rifletteva un carattere di fondo della repubblica, eversivo e velleitario, che ambiva a costruire un rinnovato ordine sul modello del totalitarismo nazista. Il primo atto politico del nuovo regime fu l’Assemblea di Verona (14 novembre 1943) in cui venne presentato un programma repubblicano, antisemita e socializzatore. L’Assemblea pretese il processo ai traditori del 25 luglio: processati, condannati e fucilati nel successivo febbraio 1944. Scatenò anche una sanguinosa spedizione squadrista a Ferrara, per vendicare la morte del federale fascista (forse ucciso da fascisti locali). Nell’ambito della repubblica l’antisemitismo venne portato alle conseguenze più estreme, sia con provvedimenti direttamente promossi dal ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi (circolare del dicembre 1943 per l’internamento di tutti gli ebrei), sia con la collaborazione di assai numerosi “bravi italiani” alle razzie e alle deportazioni tedesche, sia infine con la propaganda razzista promossa da Giovanni Preziosi.

I tedeschi avevano dapprima pensato a un’occupazione del territorio italiano diretta ad asportare dall’Italia tutte le attrezzature industriali e le materie prime. Nei mesi dell’inverno 1943-’44 si impose invece il disegno sostenuto dall’ambasciatore Rudolph Rahn di utilizzare in Italia le strutture produttive e di concedere alla repubblica una relativa autonomia. In questo quadro prese corpo una riorganizzazione della produzione industriale italiana (opera del ministro dell’Economia corporativa Angelo Tarchi) che si serviva della collaborazione di una serie di Comitati industriali al fine di dar vita a una nuova struttura corporativa dell’economia italiana. Ma il progetto di socializzazione che nel frattempo Mussolini caldeggiava allarmò i tedeschi che ne temevano tanto le più lontane implicazioni ideologico-politiche quanto le ripercussioni più immediate sulla funzionalità produttiva. Malgrado l’opposizione tedesca, portavoce tra l’altro anche dei timori degli industriali italiani, i primi provvedimenti della legislazione socializzatrice furono emanati nel gennaio e nel febbraio 1944. La loro applicazione fu invece ritardata a lungo e prese consistenza solo nell’autunno successivo.
Nel corso dell’estate 1944 le forze partigiane nell’Italia settentrionale avevano conseguito importanti successi sia con il potenziamento dei loro effettivi sia con la liberazione di varie zone nel cuore dei territori occupati. La reazione delle truppe d’occupazione agli attacchi della guerriglia e all’estendersi delle forme di opposizione fu molto feroce e diede luogo a una serie di atti di repressione violenta (impropriamente definiti rappresaglie) soprattutto nelle aree dell’Italia centrale e in quelle dell’Italia settentrionale, che costarono la vita a migliaia di cittadini italiani inermi, donne vecchi e bambini compresi Questa situazione provocò tra l’altro anche forti tensioni con alcuni esponenti della Chiesa. Molti infatti tra i fascisti avrebbero voluto che i rapporti tra Chiesa cattolica e RSI volgessero a favore di Mussolini con una netta condanna del voltafaccia di Badoglio e del re. Per rivendicare la piena dignità e il carattere cattolico del fascismo repubblicano sorse anche un movimento a carattere semi-eretico, “Crociata Italica”.

A partire dall’autunno 1944 si delineò una nuova fase nella vita della repubblica: un forte inasprimento del confronto militare interno e della repressione, da una parte, e dall’altra l’intensificazione del dibattito e della propaganda sulla socializzazione. L’ultima fase “socializzatrice” della repubblica è collegata anche all’estremo tentativo di Mussolini di salvare la propria costruzione politica. Nell’autunno 1944 prese vita, e fu successivamente riconosciuto come legittimo dalle autorità fasciste, un Raggruppamento Socialista Nazionale, promosso e capeggiato da Edmondo Cione, già allievo di Benedetto Croce, convertitosi alle idee mussoliniane.
Nel frattempo altri (il segretario Pavolini prima di tutti) proponevano a Mussolini anche un’estrema difesa militare dei fascisti in un Ridotto Armato Repubblicano, che avrebbe dovuto essere costituito in Valtellina. Ed era forse proprio verso questo ridotto – peraltro inesistente – che si stava avviando Mussolini il 28 aprile 1945, dopo aver visto fallire i tentativi di mediazione per una resa concordata tramite il cardinale Arcivescovo di Milano, Schuster. Il duce fu individuato da una formazione partigiana nascosto in un camion tedesco presso Dongo. Fatto prigioniero, venne giustiziato il giorno seguente a Giulino di Mezzegra dal comandante “Valerio” in applicazione della sentenza di morte emessa contro di lui dal CLNAI; il suo corpo e quello di alcuni di coloro che lo avevano accompagnato nell’ultima fuga fu esposto in piazzale Loreto a Milano.

4. La Seconda Guerra Mondiale: Italia 1943-1945

Dopo la caduta del fascismo l’esercito anglo-americano si trovò a fronteggiare un nemico indebolito dalla defezione italiana ma duramente determinato a fermare le forze alleate. In seguito allo sbarco anglo-americano del luglio 1943, le truppe italo-tedesche si erano ritirate dall’isola il 17 agosto; passato lo stretto di Messina, gli alleati dovettero affrontare i tedeschi su un territorio montagnoso che offriva loro la possibilità di arroccarsi a difesa e di bloccare a lungo le forze avversarie. Il sanguinoso confitto terrestre fu accompagnato dall’attività delle forze aeree che infierirono sui territori meridionali, provocando vittime civili nelle città e nelle campagne.

 

Il 9 settembre 1943 la 5ª Armata americana sbarcò a Salerno mentre la Divisione aviotrasportata britannica occupava Taranto, dall’altra parte della penisola. Sotto la pressione di questo duplice attacco la 10ª Armata tedesca, che pure a Salerno aveva effettuato vigorosi contrattacchi, fu costretta a ripiegare verso nord.
Il 1° ottobre gli alleati occuparono Foggia e Napoli, che era insorta il 27 settembre (Quattro giornate di Napoli); ma nei mesi seguenti la loro avanzata segnò il passo tanto nel settore adriatico, dove l’8ª Armata britannica si fermò a Ortona, sia nel settore tirrenico la 5ª Armata americana stentò a superare le linee di difesa tedesche (Linea Bernhard o Winter Line). A metà dicembre 1943 entrarono in azione anche le truppe italiane del ricostituito Regio Esercito, che si segnalarono a fianco degli alleati nella battaglia di Monte Lungo. Il 22 gennaio 1944 forze statunitensi sbarcavano ad Anzio, ma i tedeschi, favoriti anche dalle incertezze dei comandi americani, opposero una tenace resistenza sulla Linea Gustav, che venne spezzata solo tre mesi più tardi con un attacco a Cassino (11-19 maggio 1944), paese che controllava la valle del Liri, passaggio obbligato per l’ulteriore avanzata. L’esercito tedesco condusse la sua ritirata con grande abilità tattica malgrado la grande superiorità dei mezzi avversari. Liberata Roma il 4 giugno, le forze anglo-americane raggiunsero Firenze, insorta e liberata dalle forze del CLN della Regione Toscana, ma furono nuovamente arrestate sulla Linea Gotica, lungo l’Appennino tosco-emiliano. Il fronte appenninico tenne per tutto l’inverno 1944-1945 e crollò solo dopo l’offensiva alleata di primavera costringendo alla resa le forze tedesche in Italia, incalzate anche dalle insurrezioni delle città del nord, alla fine di aprile.

5. Antifascismo e Resistenza: aspetti generali

L’occupazione tedesca fu male accolta dalla maggioranza della popolazione italiana. Ricordi risorgimentali e della Grande Guerra avevano fatto vivere a lungo l’immagine del “tedesco nemico secolare”. Il tentativo fascista di rendere popolare l’alleanza non aveva avuto successo e quell’ostilità venne rinnovata dallo spettacolo dei militari deportati e dalla convinzione che i tedeschi fossero causa del proseguimento del conflitto.
Nella cornice di tale stato d’animo fu affrontata la scelta cruciale: Regno del Sud e RSI si contendevano la lealtà degli italiani. Da una parte l’istituzione regia, simbolo dell’unità nazionale, che chiamava a battersi a fianco delle potenze antifasciste, e dall’altra il fascismo, che si appellava all’onore di un popolo che non avrebbe dovuto tradire il suo alleato. Tra questi due pretendenti un terzo avanzava le sue ragioni: quello che si opponeva tanto al fascismo quanto al re in nome di una Italia nuova, democratica e antifascista. Tale era la scelta che si prospettava agli italiani.
Le forze dell’antifascismo, riunite in quelli che sull’esempio francese si chiamarono Comitati di Liberazione Nazionale – CLN, si posero il problema di come affrontare sul terreno militare, oltre che su quello ideale, i fascisti e i nazisti. L’organizzazione della lotta armata non fu facile né semplice: c’erano problemi di armamento, di organizzazione, di addestramento e c’erano anche antifascisti riluttanti a scendere in un confitto armato. Su questi ultimi fu rovesciata l’accusa infamante di attendismo, che in molti casi non rendeva loro giustizia.
Le prime azioni di guerra furono attuate da militari che non vollero arrendersi ai tedeschi nelle isole greche, o in alcune città italiane o infine da militari sfuggiti alla cattura (La prima Resistenza e la Resistenza militare). La superiorità di mezzi e di uomini dispiegata dalla Wehrmacht ebbe presto ragione del coraggio disperato di questi italiani. Successivamente, con l’incoraggiamento e la propaganda dei partiti antifascisti, nuove reclute vennero a ingrossare le fila dei ribelli perché la RSI pubblicò bandi di leva (bandi Graziani) per creare un proprio esercito regolare. La renitenza, dopo un primo tiepido successo della chiamata alle armi, si ampliò alla maggioranza dei coscritti sia per il rifiuto della guerra in quanto tale sia per il rifiuto dello Stato fascista.

 

La Resistenza fu un fenomeno multiforme, legato a condizioni ambientali e a congiunture specifiche; non esistette un unico modello né per il reclutamento né per l’organizzazione. Ci furono formazioni partigiane politicamente qualificate e ci furono formazioni partigiane autonome, le quali professavano in genere lealtà monarchica ed erano indicate come “badogliane”. I partiti riuniti nel CLN dell’Alta Italia CLNAI si impegnarono, pur attraverso un vivace dibattito interno, alla creazione di un comando unico che assunse la guida del Corpo Volontari della Libertà – CVL. Successivi accordi con il governo di Roma e con gli alleati portarono al riconoscimento formale della struttura e alla delega dei poteri per l’Alta Italia.
La guerriglia non fu condotta solo sulle montagne: era diretta a non dare tregua agli avversari, che dovevano sentirsi insicuri ovunque. Nelle città il compito di creare questa condizione di guerriglia fu assunto dai Gruppi d’Azione Patriottica – GAP. Nella prospettiva dell’insurrezione vennero poi costituite le Squadre d’Azione Patriottica – SAP, con compiti diversi ma ugualmente agenti nelle città.

6. Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN)

Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nasce il 9 settembre 1943 a Roma. È il momento più difficile della storia nazionale unitaria: il territorio italiano, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quello in Calabria e quello a Salerno – che avviene lo stesso 9 settembre – è diventato una delle aree di guerra in cui le truppe anglo-americane e quelle tedesche si affrontano direttamente. L’annuncio dell’armistizio, il giorno 8, non è stato preparato in alcun modo e le forze armate italiane si trovano completamente allo sbando.

Il CLN unisce in un unico organismo i diversi partiti dell’antifascismo storico, ognuno con un suo rappresentante. Sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi, socialista e futuro presidente del Consiglio, ci sono esponenti del Partito Comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola), del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), della Democrazia Cristiana (Alcide De Gasperi), della Democrazia del Lavoro (Meuccio Ruini) e del Partito Liberale (Alessandro Casati). Il Comitato, che fungerà da “direzione politica” della lotta di Liberazione, si prefigge il compito di «chiamare gli italiani alla resistenza» contro il nazifascismo e «riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». Il CLN è una risposta concreta alla disgregazione dello Stato e all’assoluta incapacità dimostrata dalla monarchia e dal governo fascista di assolvere al compito di difendere la sovranità del territorio nazionale e la vita stessa della popolazione. Inoltre, la sua composizione rappresenta una rottura evidente con lo Stato che ha permesso e sostenuto il fascismo e la sua guerra: a parte Bonomi e Casati, già in politica prima della dittatura e poi ritiratisi a vita privata, gli altri membri del CLN sono tutti esponenti dell’antifascismo che ha pagato la propria opposizione con il carcere, il confino, l’esilio.

Il CLN diventa presto un modello di rappresentanza politica e guida organizzativa presente in ogni regione d’Italia, sia in quelle occupate sia in quelle man mano liberate. Le sedi locali e provinciali si organizzano rapidamente: quella di Milano è già operativa in clandestinità l’11 settembre 1943, da cui nascerà il CLNAI. Sorgono poi i Comitati di Firenze, Torino, Genova, Parma, bologna, Padova e così via, mentre nelle città meridionali i CLN sono soprattutto creazioni del post-liberazione. I CLN meridionali sono l’espressione di una cultura politica piena di fermenti con chiare valenze antifasciste e di collegamento alla resistenza. È al Sud, e precisamente a Bari, che si tiene, nel gennaio 1944, il primo congresso dei CLN.

I CLN del Nord Italia rappresentano, nei 20 mesi della Resistenza, la guida politica e militare della lotta di Liberazione. Si tratta di vere e proprie centrali operative di lotta, di controinformazione (e di governo nelle zone libere, diffuse in modo capillare sul territorio.

7. Il Corpo Volontari della Libertà

Il Corpo volontari della Libertà (CVL) è la prima struttura, riconosciuta tanto dal Governo italiano quanto dagli Alleati, di coordinamento e unione delle forze partigiane. Il comando generale del CVL si costituisce a Milano, nel giugno 1944, quale evoluzione del comando militare del CLNAI. Ha il compito di elaborare una linea politico-militare comune per le varie brigate partigiane che stanno operando contro i nazifascisti. Il CVL è il braccio armato della Resistenza, mentre il CLN ne è la mente politica, e nasce in un momento di importanti cambiamenti: liberata Roma, si instaura in quei giorni il primo governo di unità antifascista, diretta emanazione del CLN, con alla guida Ivanoe Bonomi.

A livello politico, il CVL è un organismo unitario che rappresenta il movimento partigiano presso il governo italiano e gli Alleati; inoltre, funge da “collante” tra le varie formazioni di diverse realtà politiche. 

Sul campo, il CVL coordina le operazioni soprattutto attraverso i CLN locali, che divengono comandi regionali del Corpo. Il processo di unificazione e strutturazione del comando CVL coincide con il periodo della “grande estate partigiana”» del 1944, punto massimo di schieramento offensivo partigiano con la moltiplicazione degli scontri, l’occupazione di vallate e territori pedemontani, la costituzione di zone libere e di repubbliche partigiane. A quest’estate gloriosa segue, purtroppo, lo stallo del fronte sulla Gotica e il noto “proclama Alexander”, che invita i partigiani a passare alla difensiva e attendere la fine dell’inverno. Per le forze partigiane e per lo stesso CVL è uno shock anche da un punto di vista materiale, poiché lo stallo sul fronte comporta anche la sospensione degli aiuti e dei rifornimenti alle bande da parte degli Alleati.

Il 2 dicembre 1944 il comando CVL dirama alle brigate la propria interpretazione del proclama Alexander, visto come un invito alla “pianurizzazione” – cioè, la discesa dalla montagna in pianura – delle formazioni partigiane, che non devono rassegnarsi all’attesa ma piuttosto darsi all’attività di guerriglia nelle campagne e nei centri cittadini.

Il 7 dicembre successivo, con i “Protocolli di Roma” – un accordo fra CLNAI e Alleati – le formazioni partigiane vengono riconosciute formalmente a condizione che, a guerra conclusa, i combattenti depongano le armi all’amministrazione anglo-americana.

Le forze della Resistenza sono così sottoposte a un unico comando militare, guidato da Raffaele Cadorna, generale dell’esercito regolare italiano, inviato presso il CVL dal governo Bonomi già nell’agosto precedente. Cadorna è affiancato dai vicecomandanti Ferruccio Parri (Partito d’Azione) e Luigi Longo (Partito Comunista), esponenti di spicco dei due partiti politici che maggiormente hanno voluto l’inquadramento delle forze partigiane in una struttura omogenea. Gli altri componenti del CVL sono, in questa fase, che sarà quella conclusiva, Giovanni Battista Stucchi (Partito Socialista), nominato capo di stato maggiore; Enrico Mattei (Democrazia Cristiana); Mario Argenton (Partito Liberale e formazioni autonome), aggiunti al capo di stato maggiore.

Molti membri del CVL, nelle varie fasi belliche, vengono catturati, deportati o trucidati dai nazifascisti, o dai soli fascisti, oppure muoiono in combattimento.

Il CVL concorda con i comandi alleati l’offensiva sulla linea Gotica e l’insurrezione nazionale che, nella primavera del 1945, porta alla Liberazione dell’Italia settentrionale.

Il comando generale del CVL si scioglie per decisione unanime il 15 giugno 1945. Il suo impegno ha permesso che il partigianato italiano, unico nel contesto europeo, sia giunto alla pace avendo alla sua testa un comando rappresentativo di tutte le forze protagoniste della lotta. Con la legge del 21 marzo 1958, n. 285, il CVL ottiene il riconoscimento giuridico di corpo militare regolarmente inquadrato nelle forze armate italiane.

La bandiera del CVL, decorata di medaglia d’oro al valor militare, è attualmente custodita presso il Museo delle Bandiere dell’Altare della Patria, a Roma.

8. Le formazioni partigiane

Le formazioni partigiane sono gruppi armati di antifascisti composti su base volontaria. Hanno, nei 20 mesi della lotta di Liberazione, una composizione numerica variabile, dalla banda (poi, soprattutto, squadra) alla divisione vera e propria. Operano nel periodo compreso tra l’8 settembre 1943 e la fine della guerra (maggio 1945).

Subito dopo l’armistizio, molti sbandati delle forze armate regolari cercano di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi e ai bandi di reclutamento della neocostituita Repubblica Sociale Italiana dandosi alla macchia, rifugiandosi cioè nelle aree extra-urbane, perlopiù montane. Qui, questi ex soldati si uniscono tra loro e a elementi della popolazione locale, dando vita alle prime bande, organizzate proprio sulla scorta dell’esperienza bellica appena conclusa: quei soldati, in grado di utilizzare le armi, danno così corpo e organizzazione alla lotta partigiana.

Con il passare dei mesi, l’afflusso presso le bande di un numero sempre più elevato di disertori e renitenti alla leva fascista, ingrossa le formazioni, che cominciano man mano a connotarsi politicamente, anche grazie alla partecipazione alla stessa organizzazione e all’attività dei vari nuclei di ex prigionieri politici, ex confinati, antifascisti “storici” e combattenti del fronte antifascista della guerra di Spagna. L’esperienza della guerriglia è fondamentale perché le bande partigiane possano passare da una prima posizione esclusivamente difensiva alla vera e propria guerra contro l’occupante straniero e il nemico fascista interno. La Resistenza, data la condizione di evidente inferiorità da parte dei suoi combattenti rispetto all’organizzazione e alla potenza bellica dei nemici, necessita di un tipo di lotta che ha poco a che vedere con quella regolare. La lotta di Liberazione è, quindi, fatta soprattutto di attacchi mirati a obiettivi minori (ma non per questo secondari), rapidità negli spostamenti, azioni continue di disturbo e danneggiamento delle strutture che sostengono l’occupazione da parte del nemico.

Nella conduzione della lotta partigiana fondamentale è la nascita, il 9 giugno 1944, del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (CVL) su iniziativa del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), espressione dei partiti antifascisti.

A quel punto, le formazioni partigiane trovano una guida politica e un coordinamento militare, divenendo un organismo unitario al vertice e strategicamente frammentato alla base operativa. Pur unite in un unico Corpo, le varie formazioni mantengono le caratteristiche politiche che le contraddistinguono, trovando omogeneità nel comune obiettivo della lotta contro il nazismo e il fascismo.

Le principali formazioni partigiane che compongono il CVL sono:

  • le Brigate Garibaldi, i GAP e le SAP, organizzati dal Partito Comunista Italiano.
  • le formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione.
  • le formazioni Giacomo Matteotti, del Partito Socialista di Unità Proletaria.
  • le Brigate Fiamme Verdi, che nascono come formazioni autonome per iniziativa di alcuni ufficiali degli alpini, e si legano poi alla Democrazia cristiana, come le Brigate del popolo.
  • le Brigate Osoppo, autonome e legate alla DC e al PdA.
  • le formazioni azzurre, autonome ma politicamente monarchiche e badogliane; le piccole formazioni legate ai liberali e ai monarchici, come la Franchi, o quelle trotskiste, come Bandiera Rossa, e anarchiche, come le Bruzzi-Malatesta.
  • la Brigata Maiella, dichiaratamente repubblicana, non dipende direttamente da nessuno dei partiti del CLN

Durante il durissimo inverno del 1944-45, il CVL e il CLNAI trasformano le brigate partigiane in unità militari regolari, così da favorirne il riconoscimento a parte integrante delle Forze armate nazionali da parte del governo italiano e degli alleati.

9. La Resistenza civile, il ruolo delle donne e la questione femminile: aspetti generali

Resistenza non fu solo un fenomeno militare. Grande importanza ebbe anche quella che viene definita la Resistenza civile in cui fondamentale fu il ruolo delle donne. Una Resistenza fatta non solo di aiuti ai partigiani combattenti o ai perseguitati per ragioni di razza; ma anche più semplicemente di un tacito rifiuto della dittatura dominante.

In questo contesto va considerato anche il ruolo della Chiesa cattolica: nel corso della guerra e specificamente nel 1943-1945 in Italia la gerarchia ecclesiastica e il Vaticano si astennero dallo schierarsi apertamente per l’una o per l’altra parte; al clero toccò per lo più una funzione caritativa e di protezione, assolvendo ai suoi compiti istituzionali, pur con diversi atteggiamenti dei vari sacerdoti. Il papa Pio XII (Eugenio Pacelli) rivendicava al mondo cattolico un ruolo di guida morale: nello sfacelo di ogni autorità, la Chiesa di Roma voleva ergersi come la sola istituzione in grado di reggere.

E in effetti così appariva a una parte non piccola del Paese. Nel mondo politico la nuova formazione che si richiamava agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa fu la Democrazia Cristiana (DC) a cui, pur con qualche diffidenza, il Vaticano guardava con approvazione, mentre furono sconfessati altri gruppi cattolici: il Partito della Sinistra cristiana, ad esempio, i cui maggiori dirigenti confluirono nel PCI nel dopoguerra. Non mancarono nel panorama delle forze combattenti resistenziali formazioni dichiaratamente cattoliche (le Fiamme Verdi), mentre dall’altra parte della barricata ci furono sacerdoti che si schierarono con la RSI.

Nel quadro di una guerra tanto feroce, è stato spesso messo in secondo piano il ruolo di una componente essenziale del panorama italiano: le donne. Le donne, già al momento della resa dell’8 settembre, quando l’esercito si dissolse, diedero vita a quello che è stato definito un “maternage di massa”, una delle espressioni specificamente femminili della Resistenza civile italiana. Grazie alle donne, le famiglie, sostanzialmente matriarcali – data l’assenza generalizzata degli uomini, perlopiù sotto le armi – accolsero in casa i fuggitivi, i renitenti, i disertori, li sfamarono, fornirono abiti civili, li nascosero in quelle che diventeranno le case di latitanza. Non si trattò di un impegno privo di conseguenze: chi ospitava fuggitivi fu punito, quando scoperto, con l’arresto, con la tortura e la morte. Senza il fondamentale appoggio della popolazione non combattente e delle donne in particolare – che furono parte essenziale della cosiddetta Resistenza “civile” – difficilmente il movimento partigiano avrebbe potuto radicarsi, svilupparsi e, alla fine, vincere. Le donne, in assenza della gran maggioranza della popolazione maschile, dovettero anche sopperire da sole alla conduzione famigliare, alla crescita dei figli e allo svolgimento delle mansioni lavorative.

L’universo femminile tuttavia non sfuggì completamente alla radicalizzazione politica che investiva l’intero Paese di fronte alla guerra civile. Molte furono coinvolte nell’accesa mobilitazione politica, altre scelsero la via di un impegno più diretto. Ci furono così donne che aderirono alla Resistenza, militando in formazioni combattenti o fornendo i servizi informativi e di sussistenza essenziali, col ruolo di staffette, per un esercito combattente; e ci furono donne che entrarono al servizio della RSI nel cosiddetto Servizio Ausiliario Femminile.

10. La partecipazione delle donne alla resistenza

Le donne, uniche volontarie a pieno titolo nella resistenza, in quanto non sottoposte ai bandi di reclutamento, e in generale non obbligate alla fuga e al nascondimento, sono impegnate in ognuno dei compiti previsti dalla lotta di Liberazione nelle sue varie modalità: nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, nei Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà. Armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale, tradizione familiare o più semplicemente “di guerra” – cioè per quell’opposizione che si sviluppa sulla base della quotidianità fatta di bombardamenti, fame, lutti, dei quali si incolpa a ragione il regime – destinate a fare dell’opzione di lotta un elemento determinante della propria esistenza o un (mai semplice) passaggio biografico estemporaneo, – le donne non offrono alla Resistenza solo un contributo, ma partecipano attivamente, ponendosi come elemento imprescindibile della lotta stessa nelle sue varie declinazioni.

Il ruolo delle donne nella Resistenza si differenzia in base al periodo cronologico della loro attività e al luogo in cui esse si trovano. Ciononostante, determinati comportamenti divengono caratteristiche perduranti del loro intervento: si pensi, ad esempio, all’impegno nella protezione, che dà vita a un «maternage di massa» che, attivato all’8 settembre 1943, rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana, fino alla fine della guerra, se non oltre.

Le donne sono le protagoniste principali (ma non uniche) della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa ottengono risultati estremamente concreti e importanti da un punto di vista strategico e politico: si pensi alle donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo letteralmente svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando così la miccia dell’insurrezione cittadina. Si pensi, ancora, alle cittadine di Carrara che, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica. Si pensi a determinante ruolo di protezione, in particolare nelle campagne, dove le donne accolgono, ospitano e proteggono nelle case coloniche partigiani, militari sfamandoli e vestendoli, trasformando la loro abitazione in case di latitanza, rischio che comporta la morte. 

Al di là dell’impegno nell’opposizione civile, le donne sono parimenti importanti nella lotta armata partigiana: non solo staffette, sono combattenti armate nelle bande extra-urbane, membri dei GAP e delle SAP in città e nelle fabbriche, addette ai fondamentali servizi logistici – un insieme di compiti complesso e pericoloso senza il quale nessun esercito potrebbe esistere, meno che mai quello resistenziale – organizzatrici di manifestazioni contro la guerra, a favore dei detenuti e dei deportati, o in onore dei partigiani caduti. Ancora, sono militanti attive dei Gruppi di difesa, creati dalle donne e per le donne quale vera e propria struttura politica che, sulla scorta di un programma di affermazione di diritti e opportunità, rivendica la titolarità delle azioni femminili nella Resistenza.

La lotta di Liberazione offre alle donne la prima occasione storica di politicizzazione democratica, ma si tratta di un’esperienza non priva di contraddizioni: in un universo in cui permane la centralità del paradigma del maschio guerriero che fa della lotta armata una modalità prettamente maschile, conservando «archetipi culturali» che richiederanno altri decenni per essere anche solo scalfiti, le donne partigiane imbarazzano e destabilizzano anche coloro che, al loro fianco o con loro al proprio fianco, hanno combattuto per dar vita a qualcosa di radicalmente nuovo. È per questa ragione che, alla Liberazione, le donne sono escluse da molte (non tutte), le sfilate partigiane nelle città liberate; in precedenza, non erano mancate, tra i compagni di lotta, le voci che criticavano la scelta femminile di abbandonare il focolare per impegnarsi nella guerra partigiana, che implica convivenza, promiscuità, assenza di controllo parentale. Oltre a questo, anche la Resistenza cerca spesso donne che siano disposte a continuare a svolgere, per quanto delocalizzate dagli spazi consueti dell’esistenza di generazioni e generazioni femminili, i compiti classici dell’assistenza e della cura: quindi, più che combattenti, si vogliono donne madri e spose, cuoche e infermiere. Alle donne, in sintesi, si dimostra gratitudine e rispetto, ma non riconoscimento politico o militare. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. Il grado più alto attribuito alle donne è quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente. Sebbene impiegate in ambiti diversi all’interno del molteplice universo della Resistenza – le donne riassumono in sé quasi tutte le anime plurali dell’opposizione al nazifascismo, dall’estremo della lotta armata a quello della resistenza disarmata – gli elementi femminili risultano quasi “condannati” al compito ancillare e ausiliario, al ruolo vago e miniaturizzante di staffette, che, tuttavia, è solo apparentemente meno pericoloso, in quanto implica la trasmissione di materiali (ordini, direttive, armi, munizioni etc.) talmente scottanti da esporre a rischi serissimi i latori, che per giunta sono disarmati e quindi materialmente incapaci di difendersi.

Questa sottovalutazione riguarda lo svolgersi della lotta e soprattutto ciò che accade dopo la conclusione vittoriosa di essa: pochissime (35.000 a fronte di 150.000 uomini) sono le donne alle quali sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, nonostante un impegno, nei fatti, molto più significativo. Tante donne, presumibilmente, non chiederanno il riconoscimento; a tante, materialmente, esso sarà ingiustamente negato.

11. La resistenza dei Militari italiani nei Lager

Nell’autunno del 1943, circa 800.000 soldati italiani vengono catturati e disarmati dai tedeschi. Si trovano in patria o all’estero, tra Iugoslavia, Francia, Albania, Grecia e isole dell’Egeo, Polonia, paesi baltici e Unione Sovietica. Di questi, circa 650.000 mila finiscono, dopo viaggi interminabili in nave (non poche sono quelle che affondano) e nei famigerati vagoni piombati, nei campi di prigionia tedeschi in Germania, Austria ed Europa orientale.

Il regime nazista non considera i nostri soldati catturati come prigionieri di guerra, ma li classifica presto come “internati militari italiani” (IMI), privandoli così delle tutele garantite ai prigionieri dalla Convenzione di Ginevra, sottraendoli alla protezione della Croce Rossa Internazionale e obbligandoli al lavoro. È il lavoro per il Reich, infatti, l’obiettivo principale della politica tedesca nei confronti degli italiani catturati, un lavoro che verrà svolto in condizioni disumane, in totale spregio delle norme di guerra e di quelle umanitarie.

Durante l’internamento, i militari italiani – soprattutto gli ufficiali, perché i soldati sono ritenuti più utili al lavoro coatto – vengono incessantemente invitati, in cambio della liberazione, ad arruolarsi nelle forze armate tedesche e soprattutto nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana. La stragrande maggioranza degli internati rifiuta, dando vita a una forma di Resistenza “disarmata” o “passiva”. Molti si oppongono a qualsiasi tipo di collaborazione; tutti si rassegnano alle tragiche condizioni di vita dei lager.

La RSI non aiuta in alcun modo i connazionali nei campi che, nell’agosto 1944, sono trasformati, con il consenso di Mussolini, in “lavoratori civili”, ma non per questo le loro condizioni migliorano. Sfruttati, malati, sottoposti a torture fisiche e psicologiche, non di rado oggetto di veri e propri crimini di guerra, gli italiani dei lager pagano spesso con la vita la loro resistenza. Le vittime dei lager saranno, alla fine della guerra, tra le 40 e le 50.000.

12. La resistenza dei militari

Il 3 settembre 1943, a Cassibile, in Sicilia, Italia e Alleati firmano un armistizio, che viene reso pubblico il successivo 8 settembre, senza che sia stato predisposto davvero alcun piano per far sì che l’esercito italiano sia preparato a fronteggiare le truppe tedesche stanziate in Italia e all’estero, sui fronti, fino a quel momento comuni, di guerra.

I tedeschi, già in forze in Italia dal giugno-luglio precedente, hanno modo di occupare i gangli vitali del paese nel giro di pochi giorni e senza incontrare quasi alcuna resistenza.

Per le forze armate, abbandonate dai comandi superiori e lasciate spesso senza ordini, inizia lo sbando. Molti soldati prendono la via dei monti e della guerra partigiana, che si va strutturando in questi primi mesi.

All’estero, alcuni reparti decidono di resistere ai tedeschi, che pretendono la cessione delle armi e la loro resa. Questi tentativi di opposizione si concludono perlopiù con la sconfitta, e la successiva atroce “vendetta” da parte tedesca.

I soldati italiani che riescono a sopravvivere e a non essere catturati, entrano spesso a far parte dei movimenti di Resistenza locale, pur con le difficoltà date dall’essere stati, gli italiani, fino all’8 settembre 1943, membri degli eserciti nemici e occupanti.

In Italia, il Regno del Sud riesce a ottenere l’autorizzazione degli Alleati per tentare la ricostruzione delle forze armate. Migliaia di sbandati o di reparti rimasti parzialmente integri (in particolare, quelli stanziati in Sardegna e in Corsica) vengono riorganizzati prima nelle file del Primo Raggruppamento Motorizzato, poi in quelle del Corpo Italiano di Liberazione (CIL) e, infine, nei Gruppi di Combattimento.

 

13. La resistenza nel mezzogiorno

Il meridione d’Italia partecipò alla lotta di Liberazione in due modi: con episodi di ribellione e resistenza avvenuti nei territori delle regioni del Sud, inquadrabili cronologicamente in quella che è stata definita la prima Resistenza; con la presenza attiva di tanti meridionali nelle formazioni partigiane operanti nel centro e nel nord Italia, oppure all’estero (negli episodi riferibili alla Resistenza dei militari oppure, direttamente, all’interno dei movimenti di Liberazione dei paesi occupati fino all’8 settembre 1943).

Per quanto riguarda la Resistenza avvenuta nel Meridione d’Italia, va considerato che si ebbero scontri tra italiani e tedeschi fin dai giorni precedenti l’armistizio. I primi episodi, considerabili, più che atti di Resistenza, fermenti di un motivato ribellismo civile, si ebbero in Sicilia nell’agosto 1943. Dopo l’armistizio, invece, numerosi furono gli atti di resistenza patriottica, individuale e collettiva, da parte di militari stanziati nelle diverse regioni del Mezzogiorno e nelle isole, dalla Sardegna, alla Puglia, alla Campania. Tuttavia, ancor più numerosi, furono gli atti catalogabili come Resistenza civile nata – in Basilicata, Puglia, Molise, Campania, Abruzzo – dalla reazione ai soprusi, alla violenza diffusa, alla brutalità degli ex alleati tedeschi e dei loro collaboratori fascisti. In alcuni casi, l’opposizione quotidiana sfociò in episodi di lotta armata – si pensi a Bosco Martese, nel teramano, dove il 25 settembre 1943 si ebbe una delle prime battaglie partigiane – e in vere e proprie insurrezioni, come avvenne a Lanciano, Matera, Bari, Napoli e in altri centri minori della Campania. Nelle sue varie forme e modalità, la Resistenza fu anche al Sud, nonostante i tempi ristretti dell’occupazione nazifascista, un fenomeno diffuso e sfaccettato. In esso vanno inserite anche importanti esperienze come quelle del Primo Raggruppamento Motorizzato, le rinate forze armate del Regno del Sud che, al fianco degli Alleati, affrontarono i tedeschi ai confini tra Lazio e Campania (dal Primo Raggruppamento sarebbe nato il Corpo Italiano di Liberazione). Ancor di più, l’epopea della Brigata Maiella, formazione partigiana abruzzese che combatté nel territorio d’origine ma anche nelle Marche, in Emilia-Romagna e in Veneto. Infine, le brevi ma importanti repubbliche contadine nate, nell’autunno del 1943, in alcune aree interne della Campania, anticipatrici delle lotte per la terra del dopoguerra.

Al di là della grande vittoria di Napoli, però, questi atti di prima Resistenza – che avvennero contemporaneamente in più luoghi d’Italia, dal Mezzogiorno al Settentrione – non ebbero, di solito, fortuna. La reazione tedesca, spropositata e immotivata, fu atroce: ben 2.650 furono le vittime di stragi naziste e fasciste nei territori meridionali e insulari tra il luglio 1943 e il giugno 1944. Non tutti gli eccidi, tuttavia, furono una “reazione” alla resistenza delle popolazioni; moltissimi corrisposero esclusivamente all’esplicitazione di una precisa strategia di occupazione del territorio, all’interno del quale gli esseri umani – i civili, i militari disarmati, i partigiani inermi – non erano altro, per l’occupante, che ostacoli naturali da eliminare.

14. Le zone libere e Repubbliche Partigiane

Nella primavera-estate del 1944 la guerra partigiana vive un momento particolarmente positivo: le bande aumentano i propri effettivi riuscendo a dare vita a formazioni più consistenti e meglio strutturate; i nazifascisti, in forte difficoltà sul fronte meridionale – la linea Gustav cede a maggio, nello stesso mese gli angloamericani sfondano sul fronte tirrenico e il 4 giugno entrano a Roma – sono costretti a rinforzare la linea Gotica. Tutto ciò si traduce in una evidente delegittimazione della Repubblica sociale, che conserva l’esercizio formale delle proprie funzioni solo là dove la presenza militare tedesca ne garantisce l’autorità. Dove non ci sono i tedeschi, quindi, i fascisti perdono il controllo del territorio a favore delle forze partigiane. Così, in ampie aree dell’Italia centro-settentrionale, le cosiddette “zone libere”, si realizzano forme originali di autogoverno, gestite dai combattenti in rappresentanza del CLN. Tre sono i modelli prevalenti di queste esperienze di autogoverno: la diretta assunzione dei compiti politici e amministrativi da parte dei comandi partigiani; la scelta dei membri del Cln e delle giunte a opera dei commissari politici; la preparazione e la convocazione di assemblee elettorali come uniche sedi di legittimazione dei nuovi poteri.

Le zone libere e le repubbliche si insediano in Piemonte (Langhe e Alto Monferrato, Ossola, Lanzo, Mombercelli), Liguria (Torriglia), Lombardia (Saviore, Varzi), Emilia-Romagna (Bardi, Bobbio, Montefiorino), Friuli-Venezia Giulia (Carnia e Friuli orientale, Nimis) e Umbria (Cascia).

La concretizzazione più interessante di queste esperienze è quella delle repubbliche partigiane delle Langhe e dell’Alto Monferrato, della Carnia e dell’Ossola, dove si attua la trasformazione del controllo militare in controllo politico, ma anche quella della repubblica di Montefiorino. Le repubbliche saranno sconfitte dai nazifascisti, ma l’eredità della loro esperienza verrà recuperata dall’Italia democratica del dopoguerra.

15. Dalla guerriglia alla Liberazione

Obiettivo comune a tutte le forze della Resistenza era la cacciata dei tedeschi, ma non tutti concordavano sul modo per arrivare a questo successo. Le forze moderate sostenevano sarebbe stato meglio attendere l’arrivo degli alleati, mentre le sinistre caldeggiavano un’azione popolare di massa che dimostrasse la volontà antifascista del popolo italiano.
Un anticipo del successo partigiano era stato il breve e intenso periodo dell’estate 1944, quando in diverse aree dell’Italia settentrionale erano state costituite le Repubbliche partigiane, parziali ma significativi esperimenti di autogoverno democratico. Tra l’ottobre e il novembre 1944 tuttavia la maggior parte delle repubbliche era caduta per la controffensiva della Wehrmacht che, attestatasi sulla Linea Gotica, aveva potuto liberare parte delle sue forze e impiegarle contro i “ribelli”. Gli anglo-americani, rassegnati a una lunga pausa invernale avevano invitato l’esercito partigiano a sospendere le sue attività belliche (proclama Alexander).
L’inverno 1944-1945 mise perciò a dura prova la sopravvivenza stessa del movimento partigiano; ma l’offensiva di primavera mise nuovamente in moto il fronte. Le prospettive di un imminente crollo dell’esercito tedesco spinsero il CVL a diramare l’ordine insurrezionale. Una dopo l’altra le città del Nord diedero il via all’insurrezione e i CLN assunsero i poteri loro delegati dal governo di Roma.
L’arrivo degli alleati nelle città italiane fu accolto con grande entusiasmo delle popolazioni; ma allo stesso tempo tarpò le ali a molte illusioni. Fu instaurato un Governo Militare Alleato (GMA) che assunse i pieni poteri subordinando alla propria approvazione tutti i decreti del CLNAI e dei vari CLN regionali; ai partigiani fu imposta la consegna delle armi. Ciò non impedì che seguisse una fase di violenza postbellica, che era eredità del conflitto durissimo tra RSI e forze partigiane, con i suoi terribili aspetti di guerra civile, oltre ad essere effetto dell’abitudine alla violenza e alla morte, incentivata dalla ferocia fascista e nazista. Ai confini orientali si scatenò la vendetta delle popolazioni slave contro gli italiani, esponenti di una nazione che aveva occupato e oppresso quelle terre con violenza non minore dei nazisti. Dal maggio 1945 prese il via dall’Istria un esodo che negli anni successivi portò in Italia circa 300.000 persone.

 

Nell’Italia l’esautorazione dei CLN alla fine del 1945 aprì la strada alla restaurazione dei poteri tradizionali: i prefetti della Liberazione vennero sostituiti da prefetti di carriera, gran parte dei quali avevano servito sotto il fascismo e spesso anche sotto la repubblica sociale. Fu il segno del fallimento dell’epurazione: venne clamorosamente mancato l’obiettivo di allontanare chi aveva collaborato con la dittatura, con la RSI o con i tedeschi. Lo Stato tradizionale si ripresentava come vincitore, anche se i movimenti popolari rivendicavano il loro ruolo non solo al Nord, con la Resistenza militare e le lotte operaie, ma anche al Sud dove si era sviluppato per la prima volta nella storia dell’Italia unita un grande movimento contadino meridionale rivendicante i diritti dei lavoratori senza terra, oppressi dai grandi latifondisti.

WordPress Image Lightbox Plugin