1936-1943

La politica estera fascista, la guerra

1936-1943


Espansione, conquista, impero. Il fascismo guidato dall’orgoglio nazionalista e dal disegno di imporsi sul piano internazionale, si propone di fare degli italiani un popolo guerriero. Impegna il paese in imprese che devono dare grandezza e prestigio, fa allo stesso tempo di questi temi un formidabile strumento di propaganda e di esaltazione del suo duce. Libia, Etiopia, l’aiuto a Franco in Spagna, l’Albania; l’uso dei gas e le sanzioni della Società delle Nazioni. Ci si ferma? Con un asse la dittatura sceglie un alleato che promette di esser completamente affidabile sul piano della forza, e non ci si chiede, o non si vuol vedere se l’Italia è in grado di stare alla pari. La politica estera porta infine nell’intervento nella guerra scatenata dalla Germania. Le debolezze dell’Italia fascista si rivelano ma, fino alla fine, si illudono e seduco la maggior parte degli italiani. Così, i “combattenti di terra, di mare dell’aria; le “camice nere della rivoluzione e delle legioni”; gli “uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania”, scoprono che “Vincere, e Vinceremo!!!”, significa: guerra, dramma, tragedia.

1. Nazionalismo e guerra

Decisiva caratteristica del fascismo furono fin dagli inizi le sue scelte sul piano internazionale. Il fascismo era nato dalla guerra e dalla guerra trasse gran parte dei suoi simboli e della sua mitologia: i riti funerari e guerrieri, il culto della forza e del coraggio; e soprattutto il culto della patria, declinato secondo l’ideologia del nazionalismo. Il nazionalismo aveva predicato che il motore della storia era rappresentato dalla lotta tra le nazioni e non dalla lotta di classe, come insegnava la dottrina marxista; e il fascismo fece di questo assioma il cardine della sua azione internazionale. La questione adriatica, il colpo di mano su Fiume e D’Annunzio, la Vittoria mutilata non furono solo temi propagandistici ma divennero anche direttive di politica estera. Per il fascismo comunque la politica estera non coincise completamente con quella del nazionalismo: fu una parte e uno strumento per la costruzione dello Stati totalitario.

 

Nella politica estera fascista possiamo distinguere (fino al 1940) tre fasi:

1° fase 1922- 1925. Il fascismo seguì le linee della tradizione liberale per inserirsi negli equilibri europei, alternando l’appoggio al rigido atteggiamento francese sulla questione delle riparazioni tedesche all’avvicinamento all’Inghilterra; nei Balcani cercò buoni rapporti anche la Jugoslavia, considerato nemica a causa delle rivendicazioni adriatiche, e si spinse fino al riconoscimento diplomatico dell’URSS. Un solo atto di fragorosa affermazione di forza: l’occupazione di Corfù nel 1923, indirizzata a intimidire la Grecia.

2° fase 1925 -1932. L’Italia fascista appoggiò le pretese di revisione dei trattati di Versailles sostenute soprattutto dall’Ungheria; mirò a scalzare l’influenza francese nei Balcani e a isolare la Jugoslavia fornendo larghi aiuti a tutti i movimenti di stampo fascista in area balcanica, tra cui quello del «duce croato» Ante Pavelic. Negli stessi anni proseguiva la riconquista violenta della Libia.

3° fase 1933 -1939. La conquista del potere in Germania da parte di Hitler mise in luce consonanze ideologiche ma suscitò anche allarme per l’espansionismo nazista che non tardò a palesarsi. Nel 1934 Mussolini decise perciò di difendere l’Austria contro l’Anschluss voluto da Hitler, anche in nome dell’espansione economica italiana nei Balcani. Ne conseguì un riavvicinamento con la Francia, dopo il quale Mussolini lanciò l’attacco all’Etiopia: era l’attuazione del programma imperiale. La guerra d’Etiopia, condotta in opposizione alla Società delle Nazioni che comminò al paese aggressore quelle che Mussolini definì le inique sanzioni, lasciò l’Italia isolata sul piano internazionale; di qui venne dall’ottobre 1936 il riavvicinamento sempre più stretto alla Germania. La prima prova dell’alleanza fu la comune partecipazione alla guerra civile di Spagna. L’alleanza tra i due totalitarismi si precisò con il patto anti-Comintern nel 1937. L’appoggio italiano si manifestò ancora nel settembre 1938 alla conferenza di Monaco, che consentì a Hitler l’occupazione dei Sudeti. Ma l’alleanza venne formalizzata solo nel 1939, proprio mentre Hitler occupava Boemia e Moravia, atto finale dello smembramento della Cecoslovacchia, compiuto all’insaputa dell’alleato italiano. La risposta di Mussolini fu l’occupazione dell’Albania, di cui Vittorio Emanuele III fu proclamato re.
Guidato dall’orgoglio nazionalista e dal disegno di imporsi sul piano internazionale, il fascismo si propose di fare degli italiani un popolo guerriero, impegnò il paese in imprese che dovevano dargli grandezza e prestigio, facendo allo stesso tempo di questi temi un formidabile strumento di propaganda e di esaltazione del suo duce. Ma alla fine scelse, pur diffidandone, un alleato che prometteva di esser completamente affidabile sul piano della forza, senza che l’Italia fosse in grado di stargli alla pari. Questa parabola della politica estera, che sboccò infine nell’intervento nella guerra scatenata dalla Germania, rivela le debolezze dell’Italia fascista; ma fino alla fine illuse e sedusse la maggior parte degli italiani.

2. La Nazione e l`Impero

Quali sono le componenti dell’esaltazione nazionalista nella versione fascista?
L’esordio fu il culto della memoria della Grande guerra. Quasi ogni famiglia italiana era stata colpita da un lutto, quasi ogni famiglia aveva un caduto da ricordare. Su questo dolore si innestò un’esaltazione della Grande guerra che muoveva dal ricordo per innestare su questo la sacralizzazione del sacrificio e promuovere la condanna di quanti si erano opposti alla guerra o che ne avevano denunciati gli orrori e gli inutili lutti. L’evento centrale di questa operazione fu la tumulazione a Roma, all’Altare della Patria, della salma del Milite Ignoto. L’esaltazione di questo evento, che peraltro costituì un atto di coesione nazionale e patriottica in quasi tutti i paesi europei, fu utilizzato dai fascisti per legittimare la persecuzione e la denigrazione dei socialisti, dei comunisti e infine di tutti i democratici che si erano fatti sostenitori di una pace che non imponesse il dominio italiano ai popoli vicini. Fu questo il caso delle province orientali, abitate da un mosaico di popoli – italiani, ladini, sloveni, croati – che l’Italia conquistatrice (sia i governi liberali sia i fascisti) volle adeguare alla propria “civiltà”, con una politica di snazionalizzazione. Questa si sostanziò nella soppressione ogni loro diritto ad usare la propria lingua e a conservare le proprie tradizioni. Non diversamente si comportò il Regno nei confronti degli altoatesini, o sud tirolesi come essi stessi si definivano (Alto Adige – Sud Tirolo). In tali provincie si sviluppò un fascismo fortemente xenofobo la cui azione fu la radice di infiniti lutti e le cui conseguenze in qualche misura si avvertono ancor oggi.

La civiltà italiana mitizzata dal fascismo trovò la propria radice nel ricordo di Roma: la civiltà romana e la grandezza dell’Impero dei Cesari, magnificati soprattutto nei loro aspetti guerrieri, divennero la pietra di paragone a cui la “nuova” Italia fascista doveva ispirarsi. L’epicentro di simile celebrazione fu ovviamente Roma, che conobbe grandi lavori destinati a riportare alla luce le vestigia della romanità, ad esempio via dei Fori Imperiali sacrificando anche tracce non meno importanti di età successive.

Le grandezza dell’antica Roma venne fatta riverberare su Mussolini: il Duce, titolo scritto a tutte lettere maiuscole, venne celebrato come la reincarnazione dei grandi condottieri, dei grandi pensatori e artisti della storia d’Italia, dando vita al culto del Duce.
La guerra d’Etiopia, celebrata come il ritorno dell’Impero “sui colli fatali di Roma” (così tuonò Mussolini nel suo discorso annunciante la vittoria), guadagnò al fascismo molte adesioni. Non vi fu settore della società italiana che non fosse contagiato da un entusiasmo patriottico che oggi di appare davvero improprio, tanto più che quella guerra portò allo scoperto i temi del razzismo italiano, convogliato nel primo tempo sulle popolazioni africane ma già pronto a indirizzarsi verso gli alloglotti e gli ebrei.

3. La seconda guerra mondiale: i fronti di guerra 1940-1943

L’Italia entrò in guerra al seguito della Germania, dopo un periodo di attesa (la non belligeranza) che si prolungò fino a quando la Francia non fu sconfitta. Nel maggio 1940 la Wermacht infatti scatenò un’offensiva che in breve tempo mise in ginocchio le forze anglofrancesi; e il 10 giugno, con il consueto reboante discorso agli Italiani, Mussolini annunciò di aver dichiarato guerra a Francia e Inghilterra.
L’iniziale strategia mussoliniana prevedeva di condurre una guerra parallela e indipendente rispetto a quella tedesca in modo da assicurare al fascismo un consistente bottino e porlo al riparo dalla concorrenza tedesca.
Le operazioni militari italiane si svolsero su tre grandi fronti: in Europa, dopo la ingloriosa vittoria sulla Francia, le armate italiane attaccarono nei Balcani e in Grecia e successivamente furono ingaggiate a sostenere l’attacco alla Russia. Il secondo fronte avrebbe dovuto essere la guerra nel Mediterraneo, dove la Marina avrebbe dovuto contrastare la potenza navale inglese, ma dove l’Italia si rivelò assolutamente impari agli obiettivi proposti. Il terzo fronte fu l’Africa: l’Etiopia e la Libia.

 

Ripetutamente sconfitta su ciascuno di questi fronti, l’Italia di Mussolini si trovò di fatto ostaggio della potenza militare tedesca. La preparazione italiana si rivelò del tutto inadeguata per motivi che gli studiosi riassumono così:

1) la produzione industriale a fini bellici era inadeguata rispetto all’entità del conflitto in corso sotto il profilo sia quantitativo sia qualitativo. Dopo la sconfitta gli industriali elaborarono la tesi secondo la quale gli sforzi dell’industria furono sabotati dall’insipienza e dalla corruzione della politica. Questa interpretazione, per quanto diffusa, è poco convincente se si tiene conto degli ampi margini di assoluta discrezionalità concessi agli imprenditori.

2) le alte gerarchie militari, che avevano avuto mano libera nella gestione della Forze Armate, impostarono tutta la loro strategia secondo una concezione arretrata, ferma all’esperienza della prima guerra mondiale: quest’ultima era stata una guerra di posizione, mentre la seconda si rivelò in poco tempo guerra di movimento. Di qui l’importanza dei trasporti, delle truppe corazzate, dell’aviazione che non furono forniti in misura e con requisiti adeguati alle necessità.

3) scarsa la motivazione delle truppe e degli stessi ufficiali, costretti gli uni e gli altri a cimentarsi con nemici non solo più attrezzati dal punto di vista dell’armamento, della comunicazioni e dei trasporti, ma anche più convinti della bontà della causa per la quale si battevano.

I fronti di guerra: la Campagna d’Africa e del Mediterraneo, la Campagna di Francia, la Campagna di Grecia, la Campagna di Jugoslavia e la Campagna di Russia.

4. La seconda guerra mondiale: il fronte interno 1940-1943

Per quanto coperte dai comunicati menzogneri della stampa ufficiale, le notizie della sconfitte circolavano tra la popolazione e le difficoltà della guerra erano avvertite attraverso precisi indicatori, alla portata di tutti.
I razionamenti di derrate alimentari e di ogni genere prodotti di consumo (dal vestiario alla benzina agli stessi attrezzi per il lavoro) erano già incominciati con la guerra d’Etiopia come conseguenza delle inique sanzioni della Società delle Nazioni, ma con il conflitto mondiale furono resi ancor più restrittivi. Anche in tempo di pace il sistema annonario non era tuttavia non grado di assicurare al paese l’autosufficienza alimentare: nella penuria generalizzata degli anni di guerra prese vita un sistema di mercato nero che in breve tempo divenne parte integrante della vita sociale.
Le sconfitte militari sui fronti venivano presentate come dure ma transitorie necessità di ritirate tattiche; tuttavia non potevano essere celate fino in fondo, né potevano essere utilizzate quale motivo di più salda coesione nazionale, come era avvenuto dopo Caporetto perché il fascismo aveva imposto alla guerra il proprio marchio, tanto che il senso della solidarietà patriottica era sbiadito a favore di una identificazione ideologica e politica che era sempre meno condivisa.

 

Molto evidenti erano gli elementi che colpivano da vicino il sentire popolare. I dati complessivi sulle perdite umane tra le truppe, che pur costituivano pure un segreto accuratamente protetto dalla censura militare, non erano del tutto ignoti; in un conflitto di tali dimensioni le famiglie colpite erano tante che la notizia di un congiunto morto o disperso si diffondeva con rapidità creando alla lunga la consapevolezza della tragedia collettiva.

I bombardamenti sull’Italia complessivamente non raggiunsero mai l’entità distruttiva che ebbero in Germania o in Inghilterra, anche se un recente studio sostiene che su Roma il 19 luglio 1943 furono scaricate più bombe che su Londra per l’intera durata delle incursioni germaniche. L’Italia fu tuttavia poco colpita fino all’autunno 1942: dopo di allora, come conseguenza dell’avvicinarsi delle basi aree (nel Nordafrica) e del potenziamento dei mezzi aerei, anche la penisola fu soggetta e sistematici bombardamenti. La conseguenza più immediata fu l’intensificarsi del fenomeno dello sfollamento.
Immiserimento continuo delle condizioni di vita e sconfitte militari a ripetizione andavano minando sempre più gravemente prestigio e autorevolezza del fascio e del suo duce. Oltre che presso le classi popolari questo declino era avvertibile anche negli presso le classi dirigenti tradizionali da cui era venuto un robusto appoggio iniziale e un successivo duraturo consenso, del resto lautamente ricompensato. Ma le sorti della guerra non sembravano promettere grandi compensi futuri; i profitti andavano gonfiandosi per i settori industriali che producevano ai fini bellici, penalizzando quelli di beni di consumo pacifici; e i produttori agricoli incontravano crescenti difficoltà per la carenza di forza lavoro, di fertilizzanti e di carburanti per le macchine agricole. La classe operaia infine, la più colpita per le indurite condizioni di lavoro e per le restrizioni salariali, si apprestava a manifestare la propria opposizione in modo aperto, come avvenne con gli scioperi del marzo 1943.
Sensibile era la progressiva dissociazione della Chiesa, il cui orientamento sul piano internazionale, nello stato di guerra, era di assoluta neutralità; ma in Italia Pio XII invitò i fedeli ad assumere cautamente precise posizioni sul piano etico in vista di una ricostruzione cristiana della società.

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