1. La crisi dello stato liberale in Italia: economia e società

La Grande Guerra aprì per gli Stati liberali europei di origine ottocentesca una crisi che segnò la fine di un’epoca. La mobilitazione ai fini militari aveva gettato milioni di uomini in un mondo di nuove esperienze, li aveva sottoposti a sacrifici e pericoli inauditi e alla fine del conflitto essi si aspettavano quei mutamenti promessi dai loro governanti per ottenerne la convinta partecipazione alla guerra. In Russia l’Impero zarista era crollato sotto l’assalto dei bolscevichi: a gran parte delle masse del mondo occidentale ciò apparve il segno della possibilità di un rivolgimento totale.
Gli Stati liberali ottocenteschi caratterizzati da regimi politici per gran parte oligarchici e da strutture sociali fondate sulla ricchezza si rivelarono inadeguati ad affrontare un tale tornante della storia: dalla loro debolezza emersero soluzioni assolutamente inedite di gestione politica e sociale.

Il Regno d’Italia fu il luogo dove per la prima volta si affermò un regime politico che si propose di governare le masse con strumenti autoritari di tipo nuovo offrendo allo stesso tempo una soluzione paternalistica ad alcuni problemi sociali.

Per l’Italia i costi umani ed economici della Grande Guerra erano stati molto alti: i caduti furono stimati in circa 680.000 unità, e 450.000 gli invalidi, tutti cittadini maschi nelle fasce centrali d’età. Alta la mortalità anche tra i civili: le privazioni alimentari del tempo di guerra aggravavano le condizioni di sottonutrizione dei ceti più poveri causando maggiore morbilità; l’epidemia di influenza ( la “spagnola”) diffusa in tutto il mondo tra guerra e dopoguerra non risparmiò l’Italia, che probabilmente ebbe uno dei tassi di mortalità più alti in Europa.
Ai lutti si aggiungevano grame condizioni di vita: sul piano economico le spese di guerra, finanziate con l’ampliamento del debito pubblico, portarono a una svalutazione della lira fino al 40%,  e alla triplicazione del costo della vita. La conversione delle industrie dalla produzione di guerra a quella di pace, sommatasi al ritorno dei soldati dal fronte, alimentò una crescente disoccupazione.

 

La guerra, peraltro, aveva stimolato un forte sviluppo industriale, particolarmente nella siderurgia, nella meccanica e nella chimica, grazie alle commesse per forniture militari. Le imprese più forti – come la Montecatini, l’Ansaldo, l’Ilva, la Fiat – avevano visto crescere produzione e profitti; si era ulteriormente intensificato il processo di concentrazione industriale già avviatosi alla fine del secolo. L’apparato industriale italiano, mobilitato per le esigenze della guerra, aveva risposto positivamente, creando nuova ricchezza, che tuttavia era andata a vantaggio dei ceti più ricchi.

Dalla guerra usciva un’Italia profondamente divisa, nella quale le distanze tra le classi si era accresciuta, investendo non solo i ceti popolari ma anche le classi medie, i cui redditi fissi furono erosi dall’inflazione. La reazione di questi ultimi strati sociali costituirono una componente determinante nella nascita e nello sviluppo del movimento eversivo che diede vita al fascismo.

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