2. La politica e le lotte sociali

La guerra introdusse nell’Italia novità che sconvolsero l’assetto tradizionale di una società fondata su un’economia agraria: si sviluppò la grande industria controllata dal grande capitale, mentre lo Stato andava modificando la sua funzione divenendo attore in prima persona attraverso la mobilitazione industriale. Ciò ebbe conseguenze anche sulla vita dei lavoratori perché i sindacati vennero riconosciuti come loro rappresentanti, sia pure ai fini di un maggior controllo e con forti limiti alle loro richieste. Non potevano mettere in discussione ad esempio la disciplina di fabbrica, i licenziamenti, l’invio al fronte di esponenti politici e sindacali.

Nel dopoguerra, cadute le restrizioni della disciplina militare, i sindacati, riuniti in Confederazioni Sindacali (CGdL, CIL, UIL, USI) poterono esercitare un ruolo inconcepibile nel primo quindicennio del secolo.
La stagione delle rivendicazioni fu aperta da moti per il caroviveri, in larga parte spontanei.

Seguirono le agitazioni contadine che videro in scena salariati agricoli nel Nord, coloni e mezzadri nel Centro, salariati e piccoli proprietari nel Meridione; nel periodo finale del conflitto il governo aveva promesso la terra ai contadini e questo fu un motore fondamentale nella mobilitazione di massa.
I ceti possidenti furono allarmati dall’ampiezza del sommovimento, e dalle conquiste che esso conseguì: l’imponibile di manodopera e l’assunzione del collocamento da parte dei sindacati; i due istituti si presentavano come attentati al potere e ai diritti della proprietà. Ed era questo il cuore del conflitto. Nel settore industriale esso si presentò in forme diverse, ma di pari significato.

Guardie rosse

Nel settembre 1920 l’episodio più significativo: l’occupazione delle fabbriche e la sostituzione delle Commissioni Interne con rappresentanti di reparto che costituivano il Consiglio di Fabbrica la cui funzione rivoluzionaria fu teorizzata dal gruppo di socialisti massimalisti torinesi riuniti attorno alla rivista “Ordine Nuovo” fondata da Antonio Gramsci (ascolta il Canto dei Lavoratori).

Le lotte contadine e operaie si collocarono in una fase altamente drammatica di trasformazione dei rapporti di forza politici. La guerra aveva aperto le porte alla partecipazione dei maschi alle elezioni politiche, in base alla legge del 1912 che concedeva il diritto di voto a tutti i maschi adulti che avessero fatto il servizio militare. Nel 1919 all’ampliamento della base elettorale, conseguenza diretta della mobilitazione dell’esercito, si sommò l’adozione della rappresentanza proporzionale, che diede il colpo di grazia al sistema clientelare gestito dalle élites liberali. Due partiti si affermarono in modo incontrastato alle elezioni del 1919: il Partito Socialista e il Partito Popolare. Erano due forze politiche organizzate con sezioni territoriali e organismi collaterali in grado di esprimere interessi di gruppi professionali e di classi sociali, sotto il segno di ideologie forti. Le élites liberali disponevano invece di un declinante potere clientelare e dell’appoggio della grande stampa; ma andavano perdendo l’appoggio della borghesia industriale agraria, che si orientò verso nuovi gruppi più aggressivi e intolleranti di fronte alla richieste delle masse.

La crisi dello Stato liberale nel dopoguerra italiano si rivelò nell’incapacità del suo ceto politico di gestire, entro le forme garantite dallo Statuto, lo scontro sempre più acuto tra la vastità delle richieste popolari e il rifiuto a cedere ogni frazione di potere da parte dei gruppi dirigenti del capitale industriale-finanziario nonché della proprietà terriera.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *