14. Le zone libere e Repubbliche Partigiane

Nella primavera-estate del 1944 la guerra partigiana vive un momento particolarmente positivo: le bande aumentano i propri effettivi riuscendo a dare vita a formazioni più consistenti e meglio strutturate; i nazifascisti, in forte difficoltà sul fronte meridionale – la linea Gustav cede a maggio, nello stesso mese gli angloamericani sfondano sul fronte tirrenico e il 4 giugno entrano a Roma – sono costretti a rinforzare la linea Gotica. Tutto ciò si traduce in una evidente delegittimazione della Repubblica sociale, che conserva l’esercizio formale delle proprie funzioni solo là dove la presenza militare tedesca ne garantisce l’autorità. Dove non ci sono i tedeschi, quindi, i fascisti perdono il controllo del territorio a favore delle forze partigiane. Così, in ampie aree dell’Italia centro-settentrionale, le cosiddette “zone libere”, si realizzano forme originali di autogoverno, gestite dai combattenti in rappresentanza del CLN. Tre sono i modelli prevalenti di queste esperienze di autogoverno: la diretta assunzione dei compiti politici e amministrativi da parte dei comandi partigiani; la scelta dei membri del Cln e delle giunte a opera dei commissari politici; la preparazione e la convocazione di assemblee elettorali come uniche sedi di legittimazione dei nuovi poteri.

Le zone libere e le repubbliche si insediano in Piemonte (Langhe e Alto Monferrato, Ossola, Lanzo, Mombercelli), Liguria (Torriglia), Lombardia (Saviore, Varzi), Emilia-Romagna (Bardi, Bobbio, Montefiorino), Friuli-Venezia Giulia (Carnia e Friuli orientale, Nimis) e Umbria (Cascia).

La concretizzazione più interessante di queste esperienze è quella delle repubbliche partigiane delle Langhe e dell’Alto Monferrato, della Carnia e dell’Ossola, dove si attua la trasformazione del controllo militare in controllo politico, ma anche quella della repubblica di Montefiorino. Le repubbliche saranno sconfitte dai nazifascisti, ma l’eredità della loro esperienza verrà recuperata dall’Italia democratica del dopoguerra.

13. La resistenza nel mezzogiorno

Il meridione d’Italia partecipò alla lotta di Liberazione in due modi: con episodi di ribellione e resistenza avvenuti nei territori delle regioni del Sud, inquadrabili cronologicamente in quella che è stata definita la prima Resistenza; con la presenza attiva di tanti meridionali nelle formazioni partigiane operanti nel centro e nel nord Italia, oppure all’estero (negli episodi riferibili alla Resistenza dei militari oppure, direttamente, all’interno dei movimenti di Liberazione dei paesi occupati fino all’8 settembre 1943).

Per quanto riguarda la Resistenza avvenuta nel Meridione d’Italia, va considerato che si ebbero scontri tra italiani e tedeschi fin dai giorni precedenti l’armistizio. I primi episodi, considerabili, più che atti di Resistenza, fermenti di un motivato ribellismo civile, si ebbero in Sicilia nell’agosto 1943. Dopo l’armistizio, invece, numerosi furono gli atti di resistenza patriottica, individuale e collettiva, da parte di militari stanziati nelle diverse regioni del Mezzogiorno e nelle isole, dalla Sardegna, alla Puglia, alla Campania. Tuttavia, ancor più numerosi, furono gli atti catalogabili come Resistenza civile nata – in Basilicata, Puglia, Molise, Campania, Abruzzo – dalla reazione ai soprusi, alla violenza diffusa, alla brutalità degli ex alleati tedeschi e dei loro collaboratori fascisti. In alcuni casi, l’opposizione quotidiana sfociò in episodi di lotta armata – si pensi a Bosco Martese, nel teramano, dove il 25 settembre 1943 si ebbe una delle prime battaglie partigiane – e in vere e proprie insurrezioni, come avvenne a Lanciano, Matera, Bari, Napoli e in altri centri minori della Campania. Nelle sue varie forme e modalità, la Resistenza fu anche al Sud, nonostante i tempi ristretti dell’occupazione nazifascista, un fenomeno diffuso e sfaccettato. In esso vanno inserite anche importanti esperienze come quelle del Primo Raggruppamento Motorizzato, le rinate forze armate del Regno del Sud che, al fianco degli Alleati, affrontarono i tedeschi ai confini tra Lazio e Campania (dal Primo Raggruppamento sarebbe nato il Corpo Italiano di Liberazione). Ancor di più, l’epopea della Brigata Maiella, formazione partigiana abruzzese che combatté nel territorio d’origine ma anche nelle Marche, in Emilia-Romagna e in Veneto. Infine, le brevi ma importanti repubbliche contadine nate, nell’autunno del 1943, in alcune aree interne della Campania, anticipatrici delle lotte per la terra del dopoguerra.

Al di là della grande vittoria di Napoli, però, questi atti di prima Resistenza – che avvennero contemporaneamente in più luoghi d’Italia, dal Mezzogiorno al Settentrione – non ebbero, di solito, fortuna. La reazione tedesca, spropositata e immotivata, fu atroce: ben 2.650 furono le vittime di stragi naziste e fasciste nei territori meridionali e insulari tra il luglio 1943 e il giugno 1944. Non tutti gli eccidi, tuttavia, furono una “reazione” alla resistenza delle popolazioni; moltissimi corrisposero esclusivamente all’esplicitazione di una precisa strategia di occupazione del territorio, all’interno del quale gli esseri umani – i civili, i militari disarmati, i partigiani inermi – non erano altro, per l’occupante, che ostacoli naturali da eliminare.

12. La resistenza dei militari

Il 3 settembre 1943, a Cassibile, in Sicilia, Italia e Alleati firmano un armistizio, che viene reso pubblico il successivo 8 settembre, senza che sia stato predisposto davvero alcun piano per far sì che l’esercito italiano sia preparato a fronteggiare le truppe tedesche stanziate in Italia e all’estero, sui fronti, fino a quel momento comuni, di guerra.

I tedeschi, già in forze in Italia dal giugno-luglio precedente, hanno modo di occupare i gangli vitali del paese nel giro di pochi giorni e senza incontrare quasi alcuna resistenza.

Per le forze armate, abbandonate dai comandi superiori e lasciate spesso senza ordini, inizia lo sbando. Molti soldati prendono la via dei monti e della guerra partigiana, che si va strutturando in questi primi mesi.

All’estero, alcuni reparti decidono di resistere ai tedeschi, che pretendono la cessione delle armi e la loro resa. Questi tentativi di opposizione si concludono perlopiù con la sconfitta, e la successiva atroce “vendetta” da parte tedesca.

I soldati italiani che riescono a sopravvivere e a non essere catturati, entrano spesso a far parte dei movimenti di Resistenza locale, pur con le difficoltà date dall’essere stati, gli italiani, fino all’8 settembre 1943, membri degli eserciti nemici e occupanti.

In Italia, il Regno del Sud riesce a ottenere l’autorizzazione degli Alleati per tentare la ricostruzione delle forze armate. Migliaia di sbandati o di reparti rimasti parzialmente integri (in particolare, quelli stanziati in Sardegna e in Corsica) vengono riorganizzati prima nelle file del Primo Raggruppamento Motorizzato, poi in quelle del Corpo Italiano di Liberazione (CIL) e, infine, nei Gruppi di Combattimento.

 

11. La resistenza dei Militari italiani nei Lager

Nell’autunno del 1943, circa 800.000 soldati italiani vengono catturati e disarmati dai tedeschi. Si trovano in patria o all’estero, tra Iugoslavia, Francia, Albania, Grecia e isole dell’Egeo, Polonia, paesi baltici e Unione Sovietica. Di questi, circa 650.000 mila finiscono, dopo viaggi interminabili in nave (non poche sono quelle che affondano) e nei famigerati vagoni piombati, nei campi di prigionia tedeschi in Germania, Austria ed Europa orientale.

Il regime nazista non considera i nostri soldati catturati come prigionieri di guerra, ma li classifica presto come “internati militari italiani” (IMI), privandoli così delle tutele garantite ai prigionieri dalla Convenzione di Ginevra, sottraendoli alla protezione della Croce Rossa Internazionale e obbligandoli al lavoro. È il lavoro per il Reich, infatti, l’obiettivo principale della politica tedesca nei confronti degli italiani catturati, un lavoro che verrà svolto in condizioni disumane, in totale spregio delle norme di guerra e di quelle umanitarie.

Durante l’internamento, i militari italiani – soprattutto gli ufficiali, perché i soldati sono ritenuti più utili al lavoro coatto – vengono incessantemente invitati, in cambio della liberazione, ad arruolarsi nelle forze armate tedesche e soprattutto nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana. La stragrande maggioranza degli internati rifiuta, dando vita a una forma di Resistenza “disarmata” o “passiva”. Molti si oppongono a qualsiasi tipo di collaborazione; tutti si rassegnano alle tragiche condizioni di vita dei lager.

La RSI non aiuta in alcun modo i connazionali nei campi che, nell’agosto 1944, sono trasformati, con il consenso di Mussolini, in “lavoratori civili”, ma non per questo le loro condizioni migliorano. Sfruttati, malati, sottoposti a torture fisiche e psicologiche, non di rado oggetto di veri e propri crimini di guerra, gli italiani dei lager pagano spesso con la vita la loro resistenza. Le vittime dei lager saranno, alla fine della guerra, tra le 40 e le 50.000.

10. La partecipazione delle donne alla resistenza

Le donne, uniche volontarie a pieno titolo nella resistenza, in quanto non sottoposte ai bandi di reclutamento, e in generale non obbligate alla fuga e al nascondimento, sono impegnate in ognuno dei compiti previsti dalla lotta di Liberazione nelle sue varie modalità: nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, nei Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà. Armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale, tradizione familiare o più semplicemente “di guerra” – cioè per quell’opposizione che si sviluppa sulla base della quotidianità fatta di bombardamenti, fame, lutti, dei quali si incolpa a ragione il regime – destinate a fare dell’opzione di lotta un elemento determinante della propria esistenza o un (mai semplice) passaggio biografico estemporaneo, – le donne non offrono alla Resistenza solo un contributo, ma partecipano attivamente, ponendosi come elemento imprescindibile della lotta stessa nelle sue varie declinazioni.

Il ruolo delle donne nella Resistenza si differenzia in base al periodo cronologico della loro attività e al luogo in cui esse si trovano. Ciononostante, determinati comportamenti divengono caratteristiche perduranti del loro intervento: si pensi, ad esempio, all’impegno nella protezione, che dà vita a un «maternage di massa» che, attivato all’8 settembre 1943, rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana, fino alla fine della guerra, se non oltre.

Le donne sono le protagoniste principali (ma non uniche) della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa ottengono risultati estremamente concreti e importanti da un punto di vista strategico e politico: si pensi alle donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo letteralmente svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando così la miccia dell’insurrezione cittadina. Si pensi, ancora, alle cittadine di Carrara che, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica. Si pensi a determinante ruolo di protezione, in particolare nelle campagne, dove le donne accolgono, ospitano e proteggono nelle case coloniche partigiani, militari sfamandoli e vestendoli, trasformando la loro abitazione in case di latitanza, rischio che comporta la morte. 

Al di là dell’impegno nell’opposizione civile, le donne sono parimenti importanti nella lotta armata partigiana: non solo staffette, sono combattenti armate nelle bande extra-urbane, membri dei GAP e delle SAP in città e nelle fabbriche, addette ai fondamentali servizi logistici – un insieme di compiti complesso e pericoloso senza il quale nessun esercito potrebbe esistere, meno che mai quello resistenziale – organizzatrici di manifestazioni contro la guerra, a favore dei detenuti e dei deportati, o in onore dei partigiani caduti. Ancora, sono militanti attive dei Gruppi di difesa, creati dalle donne e per le donne quale vera e propria struttura politica che, sulla scorta di un programma di affermazione di diritti e opportunità, rivendica la titolarità delle azioni femminili nella Resistenza.

La lotta di Liberazione offre alle donne la prima occasione storica di politicizzazione democratica, ma si tratta di un’esperienza non priva di contraddizioni: in un universo in cui permane la centralità del paradigma del maschio guerriero che fa della lotta armata una modalità prettamente maschile, conservando «archetipi culturali» che richiederanno altri decenni per essere anche solo scalfiti, le donne partigiane imbarazzano e destabilizzano anche coloro che, al loro fianco o con loro al proprio fianco, hanno combattuto per dar vita a qualcosa di radicalmente nuovo. È per questa ragione che, alla Liberazione, le donne sono escluse da molte (non tutte), le sfilate partigiane nelle città liberate; in precedenza, non erano mancate, tra i compagni di lotta, le voci che criticavano la scelta femminile di abbandonare il focolare per impegnarsi nella guerra partigiana, che implica convivenza, promiscuità, assenza di controllo parentale. Oltre a questo, anche la Resistenza cerca spesso donne che siano disposte a continuare a svolgere, per quanto delocalizzate dagli spazi consueti dell’esistenza di generazioni e generazioni femminili, i compiti classici dell’assistenza e della cura: quindi, più che combattenti, si vogliono donne madri e spose, cuoche e infermiere. Alle donne, in sintesi, si dimostra gratitudine e rispetto, ma non riconoscimento politico o militare. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. Il grado più alto attribuito alle donne è quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente. Sebbene impiegate in ambiti diversi all’interno del molteplice universo della Resistenza – le donne riassumono in sé quasi tutte le anime plurali dell’opposizione al nazifascismo, dall’estremo della lotta armata a quello della resistenza disarmata – gli elementi femminili risultano quasi “condannati” al compito ancillare e ausiliario, al ruolo vago e miniaturizzante di staffette, che, tuttavia, è solo apparentemente meno pericoloso, in quanto implica la trasmissione di materiali (ordini, direttive, armi, munizioni etc.) talmente scottanti da esporre a rischi serissimi i latori, che per giunta sono disarmati e quindi materialmente incapaci di difendersi.

Questa sottovalutazione riguarda lo svolgersi della lotta e soprattutto ciò che accade dopo la conclusione vittoriosa di essa: pochissime (35.000 a fronte di 150.000 uomini) sono le donne alle quali sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, nonostante un impegno, nei fatti, molto più significativo. Tante donne, presumibilmente, non chiederanno il riconoscimento; a tante, materialmente, esso sarà ingiustamente negato.

8. Le formazioni partigiane

Le formazioni partigiane sono gruppi armati di antifascisti composti su base volontaria. Hanno, nei 20 mesi della lotta di Liberazione, una composizione numerica variabile, dalla banda (poi, soprattutto, squadra) alla divisione vera e propria. Operano nel periodo compreso tra l’8 settembre 1943 e la fine della guerra (maggio 1945).

Subito dopo l’armistizio, molti sbandati delle forze armate regolari cercano di sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi e ai bandi di reclutamento della neocostituita Repubblica Sociale Italiana dandosi alla macchia, rifugiandosi cioè nelle aree extra-urbane, perlopiù montane. Qui, questi ex soldati si uniscono tra loro e a elementi della popolazione locale, dando vita alle prime bande, organizzate proprio sulla scorta dell’esperienza bellica appena conclusa: quei soldati, in grado di utilizzare le armi, danno così corpo e organizzazione alla lotta partigiana.

Con il passare dei mesi, l’afflusso presso le bande di un numero sempre più elevato di disertori e renitenti alla leva fascista, ingrossa le formazioni, che cominciano man mano a connotarsi politicamente, anche grazie alla partecipazione alla stessa organizzazione e all’attività dei vari nuclei di ex prigionieri politici, ex confinati, antifascisti “storici” e combattenti del fronte antifascista della guerra di Spagna. L’esperienza della guerriglia è fondamentale perché le bande partigiane possano passare da una prima posizione esclusivamente difensiva alla vera e propria guerra contro l’occupante straniero e il nemico fascista interno. La Resistenza, data la condizione di evidente inferiorità da parte dei suoi combattenti rispetto all’organizzazione e alla potenza bellica dei nemici, necessita di un tipo di lotta che ha poco a che vedere con quella regolare. La lotta di Liberazione è, quindi, fatta soprattutto di attacchi mirati a obiettivi minori (ma non per questo secondari), rapidità negli spostamenti, azioni continue di disturbo e danneggiamento delle strutture che sostengono l’occupazione da parte del nemico.

Nella conduzione della lotta partigiana fondamentale è la nascita, il 9 giugno 1944, del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (CVL) su iniziativa del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), espressione dei partiti antifascisti.

A quel punto, le formazioni partigiane trovano una guida politica e un coordinamento militare, divenendo un organismo unitario al vertice e strategicamente frammentato alla base operativa. Pur unite in un unico Corpo, le varie formazioni mantengono le caratteristiche politiche che le contraddistinguono, trovando omogeneità nel comune obiettivo della lotta contro il nazismo e il fascismo.

Le principali formazioni partigiane che compongono il CVL sono:

  • le Brigate Garibaldi, i GAP e le SAP, organizzati dal Partito Comunista Italiano.
  • le formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione.
  • le formazioni Giacomo Matteotti, del Partito Socialista di Unità Proletaria.
  • le Brigate Fiamme Verdi, che nascono come formazioni autonome per iniziativa di alcuni ufficiali degli alpini, e si legano poi alla Democrazia cristiana, come le Brigate del popolo.
  • le Brigate Osoppo, autonome e legate alla DC e al PdA.
  • le formazioni azzurre, autonome ma politicamente monarchiche e badogliane; le piccole formazioni legate ai liberali e ai monarchici, come la Franchi, o quelle trotskiste, come Bandiera Rossa, e anarchiche, come le Bruzzi-Malatesta.
  • la Brigata Maiella, dichiaratamente repubblicana, non dipende direttamente da nessuno dei partiti del CLN

Durante il durissimo inverno del 1944-45, il CVL e il CLNAI trasformano le brigate partigiane in unità militari regolari, così da favorirne il riconoscimento a parte integrante delle Forze armate nazionali da parte del governo italiano e degli alleati.

7. Il Corpo Volontari della Libertà

Il Corpo volontari della Libertà (CVL) è la prima struttura, riconosciuta tanto dal Governo italiano quanto dagli Alleati, di coordinamento e unione delle forze partigiane. Il comando generale del CVL si costituisce a Milano, nel giugno 1944, quale evoluzione del comando militare del CLNAI. Ha il compito di elaborare una linea politico-militare comune per le varie brigate partigiane che stanno operando contro i nazifascisti. Il CVL è il braccio armato della Resistenza, mentre il CLN ne è la mente politica, e nasce in un momento di importanti cambiamenti: liberata Roma, si instaura in quei giorni il primo governo di unità antifascista, diretta emanazione del CLN, con alla guida Ivanoe Bonomi.

A livello politico, il CVL è un organismo unitario che rappresenta il movimento partigiano presso il governo italiano e gli Alleati; inoltre, funge da “collante” tra le varie formazioni di diverse realtà politiche. 

Sul campo, il CVL coordina le operazioni soprattutto attraverso i CLN locali, che divengono comandi regionali del Corpo. Il processo di unificazione e strutturazione del comando CVL coincide con il periodo della “grande estate partigiana”» del 1944, punto massimo di schieramento offensivo partigiano con la moltiplicazione degli scontri, l’occupazione di vallate e territori pedemontani, la costituzione di zone libere e di repubbliche partigiane. A quest’estate gloriosa segue, purtroppo, lo stallo del fronte sulla Gotica e il noto “proclama Alexander”, che invita i partigiani a passare alla difensiva e attendere la fine dell’inverno. Per le forze partigiane e per lo stesso CVL è uno shock anche da un punto di vista materiale, poiché lo stallo sul fronte comporta anche la sospensione degli aiuti e dei rifornimenti alle bande da parte degli Alleati.

Il 2 dicembre 1944 il comando CVL dirama alle brigate la propria interpretazione del proclama Alexander, visto come un invito alla “pianurizzazione” – cioè, la discesa dalla montagna in pianura – delle formazioni partigiane, che non devono rassegnarsi all’attesa ma piuttosto darsi all’attività di guerriglia nelle campagne e nei centri cittadini.

Il 7 dicembre successivo, con i “Protocolli di Roma” – un accordo fra CLNAI e Alleati – le formazioni partigiane vengono riconosciute formalmente a condizione che, a guerra conclusa, i combattenti depongano le armi all’amministrazione anglo-americana.

Le forze della Resistenza sono così sottoposte a un unico comando militare, guidato da Raffaele Cadorna, generale dell’esercito regolare italiano, inviato presso il CVL dal governo Bonomi già nell’agosto precedente. Cadorna è affiancato dai vicecomandanti Ferruccio Parri (Partito d’Azione) e Luigi Longo (Partito Comunista), esponenti di spicco dei due partiti politici che maggiormente hanno voluto l’inquadramento delle forze partigiane in una struttura omogenea. Gli altri componenti del CVL sono, in questa fase, che sarà quella conclusiva, Giovanni Battista Stucchi (Partito Socialista), nominato capo di stato maggiore; Enrico Mattei (Democrazia Cristiana); Mario Argenton (Partito Liberale e formazioni autonome), aggiunti al capo di stato maggiore.

Molti membri del CVL, nelle varie fasi belliche, vengono catturati, deportati o trucidati dai nazifascisti, o dai soli fascisti, oppure muoiono in combattimento.

Il CVL concorda con i comandi alleati l’offensiva sulla linea Gotica e l’insurrezione nazionale che, nella primavera del 1945, porta alla Liberazione dell’Italia settentrionale.

Il comando generale del CVL si scioglie per decisione unanime il 15 giugno 1945. Il suo impegno ha permesso che il partigianato italiano, unico nel contesto europeo, sia giunto alla pace avendo alla sua testa un comando rappresentativo di tutte le forze protagoniste della lotta. Con la legge del 21 marzo 1958, n. 285, il CVL ottiene il riconoscimento giuridico di corpo militare regolarmente inquadrato nelle forze armate italiane.

La bandiera del CVL, decorata di medaglia d’oro al valor militare, è attualmente custodita presso il Museo delle Bandiere dell’Altare della Patria, a Roma.

6. Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN)

Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nasce il 9 settembre 1943 a Roma. È il momento più difficile della storia nazionale unitaria: il territorio italiano, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quello in Calabria e quello a Salerno – che avviene lo stesso 9 settembre – è diventato una delle aree di guerra in cui le truppe anglo-americane e quelle tedesche si affrontano direttamente. L’annuncio dell’armistizio, il giorno 8, non è stato preparato in alcun modo e le forze armate italiane si trovano completamente allo sbando.

Il CLN unisce in un unico organismo i diversi partiti dell’antifascismo storico, ognuno con un suo rappresentante. Sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi, socialista e futuro presidente del Consiglio, ci sono esponenti del Partito Comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola), del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), della Democrazia Cristiana (Alcide De Gasperi), della Democrazia del Lavoro (Meuccio Ruini) e del Partito Liberale (Alessandro Casati). Il Comitato, che fungerà da “direzione politica” della lotta di Liberazione, si prefigge il compito di «chiamare gli italiani alla resistenza» contro il nazifascismo e «riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». Il CLN è una risposta concreta alla disgregazione dello Stato e all’assoluta incapacità dimostrata dalla monarchia e dal governo fascista di assolvere al compito di difendere la sovranità del territorio nazionale e la vita stessa della popolazione. Inoltre, la sua composizione rappresenta una rottura evidente con lo Stato che ha permesso e sostenuto il fascismo e la sua guerra: a parte Bonomi e Casati, già in politica prima della dittatura e poi ritiratisi a vita privata, gli altri membri del CLN sono tutti esponenti dell’antifascismo che ha pagato la propria opposizione con il carcere, il confino, l’esilio.

Il CLN diventa presto un modello di rappresentanza politica e guida organizzativa presente in ogni regione d’Italia, sia in quelle occupate sia in quelle man mano liberate. Le sedi locali e provinciali si organizzano rapidamente: quella di Milano è già operativa in clandestinità l’11 settembre 1943, da cui nascerà il CLNAI. Sorgono poi i Comitati di Firenze, Torino, Genova, Parma, bologna, Padova e così via, mentre nelle città meridionali i CLN sono soprattutto creazioni del post-liberazione. I CLN meridionali sono l’espressione di una cultura politica piena di fermenti con chiare valenze antifasciste e di collegamento alla resistenza. È al Sud, e precisamente a Bari, che si tiene, nel gennaio 1944, il primo congresso dei CLN.

I CLN del Nord Italia rappresentano, nei 20 mesi della Resistenza, la guida politica e militare della lotta di Liberazione. Si tratta di vere e proprie centrali operative di lotta, di controinformazione (e di governo nelle zone libere, diffuse in modo capillare sul territorio.

1. La crisi del fascismo

Al malessere del Paese rispondeva l’indebolimento del Partito Nazionale Fascista. Non calavano certo le iscrizioni, che erano obbligatorie ed erano tanto più richieste a tutti i cittadini in quegli anni, quando dovevano attestare la fiducia nelle sorti del conflitto. Ma la dirigenza del PNF non riusciva a rinnovarsi o a esprimere nuovi leader per resuscitare i passati consensi; il mastodontico partito restava affidato ai rituali escogitati da Achille Starace. Per rispondere a tale vuoto Mussolini lanciò una demagogica campagna anticapitalista, a cui non corrisposero provvedimenti di giustizia sociale o di miglioramenti salariali (sindacati fascisti), mentre proseguiva e si faceva più oppressiva la persecuzione degli ebrei.
La drammatica situazione militare e politica richiedeva soluzioni drastiche: dopo aver sconfitto le truppe dell’Asse in Africa, e mentre si consumava la tragedia della ritirata di Russia, gli anglo-americani attuavano uno sbarco in Sicilia (10 luglio 1943) con un grande apparato di forze e iniziavano ad avanzare verso l’Italia peninsulare. Appariva ormai ineluttabile la necessità italiana di ritirarsi dal conflitto; ma un debole Mussolini – anch’egli conscio della grave situazione – non riuscì nemmeno a prospettare a Hitler questa soluzione nell’incontro di Feltre (19 luglio 1943, proprio nel giorno del bombardamento di Roma).
Di questa soluzione si erano invece andati convincendo sia i circoli militari, sia lo stesso re, sia gran parte delle alte cariche del PNF. Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo, riunito dopo una lunga sospensione, votò una risoluzione per chiedere al re di riprendere i poteri che lo Statuto gli assegnava in quanto capo delle Forze Armate.

Convinto della ineluttabilità della sconfitta, Vittorio Emanuele III si appoggiò alla risoluzione del Gran Consiglio per rovesciare la situazione senza le remore legalitarie che aveva addotto nel 1924 per non scalzare il simpatico giovanotto in camicia nera. Arrestato e imprigionato Mussolini, il re nominò capo del governo Pietro Badoglio, che instaurò nei 45 giorni successivi alla sua nomina una autentica dittatura militare, utilizzando l’esercito per reprimere tutte le manifestazioni popolari indirizzate a chiedere “pace e libertà”. Badoglio e il re temevano le reazioni tedesche al rovesciamento delle alleanze, ma nello stesso tempo tardavano a portare a conclusione le trattative avviate in gran segreto.
La condotta ambigua del governo italiano indusse gli alleati a scatenare sulla penisola, alla metà d’agosto 1943, una serie di bombardamenti tra i più distruttivi dell’intera guerra.
I partiti antifascisti, che si erano ricostituiti o che andavano costituendosi, non furono legalmente riconosciuti anche se i loro esponenti in carcere furono liberati, con gradualità in modo da ostacolare le sinistre. Vennero tuttavia costituiti in diverse città e a Roma stessa dei Comitati delle Opposizioni che intendevano premere in senso democratico sulle autorità di governo, mentre con scioperi e manifestazioni di piazza si allargava la protesta popolare contro il proseguimento del conflitto.

2. Armistizio e occupazione tedesca

Al termine di lunghe e, da parte italiana esitanti, trattative con i comandi alleati il generale Castellano firmò a Cassibile l’armistizio il 3 settembre 1943. Esso prevedeva la resa incondizionata dell’Italia, la consegna della flotta e la successiva dichiarazione di guerra alla Germania. La reazione tedesca fu immediata e preparata da tempo: dalla fine di luglio era iniziato l’afflusso di nuove truppe che all’8 settembre occuparono il paese, disarmando l’esercito in Italia, nei Balcani e in Grecia e avviando i militari nei campi di internamento tedeschi, ovvero gli Internati Militari Italiani.
La cattura di 600.000 uomini senza una strategia di resistenza guidata dai responsabili dell’apparato militare fu resa possibile dall’ignavia delle re e degli alti comandi delle Forze Armate, che fuggirono da Roma per mettersi sotto la protezione degli Alleati dove costituirono nelle provincie meridionali il Regno del Sud.
In contrapposizione al governo formalmente legittimo del Savoia sorse, alleata dei tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana, a capo della quale si pose Mussolini, liberato dalla prigione del Gran Sasso dall’Obersturmfuhrer Skorzeni. La repubblica governava i territori al nord della linea del fronte, con l’eccezione dei territori nordorientali, definiti teatro di operazioni militari (Alpenvorland e Adriatische Küstenland) e di fatto annessi al Terzo Reich. Completamente sottomessa agli ordini dell’occupante sul piano militare e politico, la repubblica tentò anche di progettare un nuovo ordinamento politico e sociale ispirato al modello nazista. Ma il nocciolo era l’istituzione dei Consigli di Gestione nelle fabbriche che avrebbero dovuto porre fine al sistema capitalista: una manovra demagogica che allarmò i tedeschi e i padroni italiani ma che venne rifiutata dalle masse operaie come un trucco.
La Germania dal canto suo instaurò in Italia un articolato sistema di occupazione militare mirante a sfruttare tutte le risorse materiali ed umane del Paese per rafforzare il proprio potenziale bellico.

 

La nascita della Resistenza armata aprì un conflitto diretto non solo contro l’occupante straniero ma anche contro le Forze armate della RSI: fascisti e nazisti si impegnarono in un’opera di repressione che non risparmiò donne e civili disarmati in una vera e propria guerra ai civili. Dal canto loro i partigiani misero in atto una guerriglia che, malgrado l’evidente disparità di armamento, pose in non poche difficoltà gli occupanti.
Il Regno del Sud nel frattempo era il teatro di uno scontro politico accanito tra il re e i partiti antifascisti, che chiedevano la decadenza sua e del governo Badoglio, entrambi discreditati per i lunghi rapporti col fascismo e soprattutto disprezzati dopo la fuga da Roma. La situazione di stallo che si era creata fu risolta dall’arrivo del capo del PCI, Palmiro Togliatti, che propose un patto di unità nazionale per combattere la comune battaglia antitedesca e antifascista. Per quanto rifiutata dagli altri partiti della sinistra del CLN, questa proposta (l’operazione è nota come la svolta di Salerno), impegnò il re a lasciare dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) i suoi poteri al figlio Umberto, col titolo di Luogotenente del Regno. Badoglio fu sostituito da Ivanoe Bonomi, liberale antifascista presidente del CLN, a capo di un governo cui parteciparono tutti i partiti del CLN.