1. Lo Stato autoritario

La conquista del premierato non significò per Mussolini il conseguimento completo dei suoi obiettivi. Mentre procedeva alla distruzione fisica di tutte le organizzazioni che potessero rappresentare forze politiche “nemiche”, dopo una fase di collaborazione con popolari e liberali, avviò tra il 1924 e il 1926 una legislazione diretta a introdurre nuovi istituti che scardinassero il precedente ordinamento liberale e forgiassero i caratteri di uno Stato fascista. L’idea guida fu il rafforzamento sempre e sotto ogni profilo del potere esecutivo. In questo modo il fascismo realizzò il superamento dello Stato liberale per costruire un nuovo sistema per governare la società di massa.

Nel quadro dei mutamenti istituzionali, ebbe un posto centrale l’esaltazione del ruolo del capo del governo a cui si accompagnarono norme tendenti al rafforzamento complessivo dei poteri dell’esecutivo (l’abilitazione del governo ad emanare norme legislative attraverso la decretazione d’urgenza), un’ulteriore scadimento della funzione parlamentare degradata a funzione meramente consultiva, prima ancora di diventare, dopo la riforma elettorale del 1928, puramente decorativa. Con le “leggi fascistissime” del 1925 era stata cancellata la libertà di associazione (nel 1926 furono dichiarati decaduti i parlamentari dell’Aventino) e il Partito Nazionale Fascista si avviò a diventare partito unico di Stato; l’assemblea dei capi del fascismo, il Gran Consiglio del fascismo, creato informalmente nel dicembre 1922 (formalizzato nel 1923) fu consacrato nel 1928 come supremo organo costituzionale. Nel 1923 la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale – MVSN, integrata nell’esercito l’anno successivo, inquadrava le squadre d’azione fasciste in una istituzione statale. Sotto tale facciata le squadracce costituivano un organismo che contendeva allo Stato il monopolio dell’uso della forza.

Ruolo non secondario ebbe la fine delle autonomie locali realizzato attraverso l’abolizione delle amministrazioni elettive, sostituite da nomine dall’alto di amministrazioni che fossero di gradimento del partito dominante, e con l’accentuazione dei poteri dell’esecutivo attraverso i compiti dei prefetti. La legge del 4 febbraio 1926 soppresse il sistema elettivo per le Amministrazioni Comunali e Provinciali. I Sindaci, dal 1848 e fino a quel momento democraticamente eletti dal popolo, furono sostituiti dai podestà nominati dal Governo.

La fase successiva fu inaugurata dopo che il fascismo ebbe superato la crisi innestata dall’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti che aveva denunciato le violenze e i brogli elettorali con cui i fascisti avevano conseguito la maggioranza relativa, in forza della quale, secondo la legge Acerbo, il fascismo aveva conquistato la maggioranza in Parlamento.

L’opinione pubblica fu scossa dall’enormità del delitto e nelle stesse file fasciste si manifestarono dubbi e incertezze. Le opposizioni in segno di protesta decisero di non partecipare alle sedute del Parlamento, dando vita al cosiddetto Aventino. Vittorio Emanuele III, sollecitato a sfiduciare Mussolini, si rifiutò accampando ragioni costituzionali e sostenendo che solo un voto del Parlamento poteva indurlo a tale passo. Il monarca fingeva di ignorare che quel Parlamento era dominato da una maggioranza illegittima, come aveva denunciato Matteotti, assassinato proprio per questo suo coraggio.

La serie di provvedimenti emanati dopo un famoso discorso del 3 gennaio 1925 investì la sfera della libertà dei cittadini, con nuove leggi di pubblica sicurezza che crearono nuovi strumenti per la repressione di attività non conformi all’orientamento del governo fascista (istituto del confino e creazione dell’OVRA). La discrezionalità dell’intervento del potere esecutivo era tale da rendere del tutto aleatoria ogni velleità di opposizione. Nel 1926 fu creato infine il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, inserito in una giurisdizione eccezionale e in un sistema giudiziario ormai deprivato della sua autonomia.

2. Totalitarismo

Il fascismo italiano, non diversamente dagli altri fascismi europei, si presenta con una retorica sovversiva e anticapitalista. La sua sostanza è tuttavia quella di un movimento controrivoluzionario, che non distrugge le vecchie élites sociali ed economiche, ma nello stesso tempo appresta un regime politico sociale nuovo. Distrutto il movimento operaio e via via tutte le istituzioni democratiche, crea nuovi istituti in cui le masse, vengono inquadrate irreggimentate e sottomesse. Nel regime fascista le masse sono un soggetto importante e decisivo, perché esse devono essere mobilitate per svolgere una funzione coreografica al fine di celebrare il trionfo del duce e del suo movimento. E soprattutto le masse devono costituire una comunità (il popolo, la nazione, la razza) che si mobilita attorno ai miti e ai simboli della dittatura.

L’individuo viene cancellato e annullato dallo Stato, che appare come unità compatta in cui le singolarità si dissolvono e gli uomini si fanno massa. All’interno di questa logica l’individuo deve identificarsi intimamente con il regime, con le sue regole e la sua fede. Attorno al singolo si crea quindi una rete di osservazione, costituita in parte da organi di polizia (la Polizia Politica dapprima e poi l’OVRA), ma rinforzata e resa più temibile dalla presenza dei delatori, cittadini che per desiderio di lucro o per invidia o malanimo o per ingraziarsi le autorità vogliono segnalarsi per zelo persecutorio nei confronti di ogni dissidenza.

Le grandi cerimonie collettive, le adunate “oceaniche” per assistere alle esibizioni oratorie di Mussolini, sono momenti di una sorta di liturgia della nuova religione laica di cui il fascismo si è fatto banditore. Stretto dapprima attorno ai miti nazionalisti, il fascismo, con la guerra coloniale contro l’Etiopia, incrementa la componente razzista della propria ideologia e con il 1938 dichiara apertamente la persecuzione degli ebrei e di tutte le “razze inferiori”, come corollario necessario del suo totalitarismo.

3. Lo Stato totalitario

Il fascismo aveva necessità della presenza delle masse. Ad esse fu assegnato un ruolo sostanzialmente passivo: le loro tradizionali organizzazioni rappresentative e rivendicative, i Sindacati e le Commissioni interne, vennero cancellati e sostituiti dai Sindacati fascisti. A questi ultimi il Patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), stipulato con le organizzazioni padronali, riconobbe la rappresentanza esclusiva dei lavoratori. La loro azione si fondava sulla rinuncia allo sciopero e sulla collaborazione tra capitale e lavoro. Il riconoscimento legale del sindacato unico, la creazione della Magistratura del lavoro e il divieto dello sciopero e della serrata nel 1926 sanzionarono tale stato di fatto. La forza dei sindacati fascisti, riuniti nella Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali, parve tuttavia eccessiva nel quadro degli equilibri di potere che Mussolini andava realizzando; nel 1928 la Confederazione venne sciolta con un forte ridimensionamento delle organizzazioni che la costituivano. Ai sindacati fascisti si impose però, nel corso della crisi economica italiana degli anni Venti, la necessità di farsi portavoce e difensori di masse operaie e contadine colpite dalle decurtazioni salariali; ma questa fu una battaglia persa, anche se tentata (con qualche timidezza), perché industriali e ceti proprietari delle campagne si opposero a ogni richiesta di miglioramenti.

 

Il ruolo e la funzione dei sindacati venivano concepiti nel quadro di un ordinamento corporativo, governato dal Consiglio nazionale delle Corporazioni (1930). L’ordinamento corporativo fu presentato come il superamento del capitalismo, ma fu un progetto molto più limitato: un’economia dei produttori fondata su rapporti tra Stato–impresa, sindacati e corporazioni. L’esperimento fallì perché non riuscì a sottoporre allo Stato gli interessi dei potentati economici.
Una delle maggiori novità del fascismo rispetto allo Stato liberale fu la creazione di un sistema statale di assistenza. Nel 1927 la Carta del Lavoro sancì che assicurazioni, pensioni e assistenza sanitaria fossero parte della struttura statale. L’Istituto Nazionale delle Assicurazioni – INA, ereditato dal regime liberale, continuò ad avere un ruolo dominante nella struttura statale; ma nel 1933 la Cassa Nazionale Invalidità e Vecchiaia Operai fu trasformata nell’Istituto Nazionale Fascista Previdenza Sociale – INFPS (cui si aggiunse nel 1942 l’ENPAS per gli statali); nel 1943 fu creato l’Istituto Nazionale Assistenza Invalidi del Lavoro. Significativa e importante fu la creazione dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia – ONMI il cui ruolo non fu solo assistenziale, ma fu destinato anche a propagandare e a sostenere la politica demografica del regime.

 

L’ONMI riempì un vuoto di assistenza in un settore fino allora trascurato dallo Stato: creò, pur con notevoli diseguaglianze territoriali, strutture destinate alle madri in stato di necessità e ai loro figli, diede impulso alla professionalizzazione di medici e ostetriche, all’istituzione di asili nido. Tutto ciò fu accompagnato da una martellante campagna a favore dell’incremento delle nascite, sollecitò le unioni legittime per la costituzione di famiglie “sane e prolifiche” in cui la madre, tenuta lontano dalla vita pubblica e dal lavoro fuori casa, adempisse ai suoi doveri con dedizione totale indicando, in questo modo, quale doveva essere il ruolo della donna nella società fascista. A questo fine istituì i premi per la famiglie numerose, mentre dall’altro lato istituiva la tassa sui celibi al fine di incoraggiare i maschi a creare famiglie.

4. Lo Stato totalitario, seconda parte

Ai fini del disciplinamento delle masse il fascismo istituì una serie di strutture dedicate ai vari settori della popolazione. I giovani furono inquadrati per fasce d’età e per sesso nell’Opera Nazionale Balilla – ONB (fino ai 18 anni), nei Fasci Giovanili di Combattimento (fino ai 21 anni), nei Gruppi Universitari Fascisti – GUF; nel 1937 tutte le organizzazioni giovanili furono unificate nella Gioventù Italiana del Littorio.

L’ONB organizzava i maschi in: figli della Lupa (dai 6 agli 8 anni); balilla (dai 9 ai 10 anni); balilla moschettieri (dagli 11 ai 13 anni); avanguardisti (dai 14 ai 18 anni). Le femmine erano distribuite in: figlie della Lupa (dai 6 agli 8 anni); piccole italiane (dai 9 ai 13 anni); giovani italiane (dai 14 ai 18 anni). L’appartenenza a tali organizzazioni comportava l’acquisto delle divise, che pesavano in modo non indifferente nel bilancio delle famiglie più povere, e la partecipazione non passiva alle coreografiche manifestazioni di massa, per lo più sportive e per le quali occorreva anche un apposito addestramento.
Gli adulti dovevano iscriversi al Partito Nazionale Fascista – PNF, all’interno del quale esistevano associazioni fasciste di categoria (e di tutte le fasce sociali, ad es. le massaie rurali) destinate a inquadrare l’intera nazione; nel 1933 l’iscrizione al partito fu obbligatoria nelle amministrazioni pubbliche (1933) e dal 1938 divenne di fatto necessaria per ottenere qualunque impiego. Anche l’iscrizione al PNF comportava l’obbligo di partecipare alle cerimonie del regime indossando la divisa.

Ruolo molto importante fu svolto dal Ministero della Cultura Popolare – Minculpop, creato nel 1937, che aveva il compito di sorvegliare la stampa e di promuovere tutte le iniziative culturali, esercitando una attenta censura e indirizzandole all’esaltazione delle regime. Esso nacque dalla trasformazione di due organismi, succedutisi nel tempo – l’Ufficio Stampa del Capo del Governo (1922) e il Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda (1934) – di cui ereditò e sviluppò le funzioni con l’obbiettivo di fare partecipe tutta la popolazione italiana dei miti e dell’ideologia fascista, anche attraverso l’organizzazione di spettacoli teatrali e cinematografici itineranti. Su un piano diverso operava l’Istituto Fascista di Cultura creato nel 1925.
Nella scuola fascista l’organizzazione di massa dei giovani ebbe una parte essenziale integrando e potenziando l’indottrinamento dei giovani. La scuola fu oggetto di diversi interventi legislativi a partire dalla riforma Gentile (1923), “la più fascista delle riforme”. La struttura della scuola italiana, disegnata dal Gentile, non rimase immutata durante il regime; ma i suoi caratteri furono soprattutto modificati in base a interventi politico-disciplinari. Al suo interno gli insegnanti erano obbligatoriamente iscritti al PNF e gli alunni erano incentivati a entrare nell’ONB, pena l’esclusione da benefici e concorsi nonché l’ostracismo da parte degli insegnanti più acquiescenti al regime. La scuola di Gentile era stata il frutto di un progetto coerente di educazione umanistica, indirizzato a educare le future classi dirigenti. Ne era parte fondante una concezione classista che escludeva dal percorso dell’istruzione superiore i ragazzi meno acculturati (di fatto quelli delle classi popolari). Un simile assetto non era tuttavia in grado di soddisfare le esigenze di un Paese avviato verso una trasformazione in senso industriale, che il fascismo favoriva ai fini della preparazione bellica. Un primo intervento fu quello avviato dal ministro Giuseppe Belluzzo nel 1928 che creò la Scuola di avviamento professionale post-elementare; più significativa e organica fu la riforma Bottai, che riorganizzava più razionalmente il complesso degli indirizzi.

5. Fascisti e cattolici

Sul piano interno e su quello internazionale il fascismo conseguì il suo più significativo successo nel 1929, quando Mussolini e il Segretario di Stato vaticano Cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti Lateranensi che ponevano fine al dissidio Chiesa-Stato italiano, protraentesi dalla conquista di Roma nel 1870. Quei Patti non furono solo un documento giuridico- diplomatico, ma conferirono alla Chiesa cattolica un ruolo sociale e civile impensabile in altri Stati laici e liberaldemocratici del continente, mentre Mussolini guadagnava un consenso tra i cattolici, che fu certificato dalle elezioni del 1929, svoltesi in forma di plebiscito.
I rapporti del fascismo con il Vaticano non si mantennero sereni a lungo: già nel 1931 si aprì un contenzioso generato dal fatto che l’Azione Cattolica andava impegnando suoi aderenti in un’azione di apostolato sociale e di intervento nella società che apparve sospetta agli occhi del regime. Da una parte i fascisti avvertivano l’agire di una concezione del mondo diversa dalla loro, dall’altra sospettavano la rinascita di una forza politica sul tipo di quello che era stato il Partito Popolare. Sul secondo punto era pienamente in errore, ma era vero che la loro egemonia avrebbe potuto essere messa in discussione dall’affermarsi di un’ideologia cattolica. Contro i circoli di Azione Cattolica si scatenarono le squadre fasciste e il Vaticano fu costretto a porre dei limiti precisi all’attività culturale delle organizzazioni maschili. Relativamente intatta restò solo l’attività della Federazione Universitaria Cattolica Italiana – FUCI, che di fatto fu poi il luogo in cui si formarono le leve dell’antifascismo cattolico.

 

Un intenso ritorno di fiamma per l’accordo tra i due regimi fu segnato da due eventi internazionali alla metà degli anni ‘30: la guerra civile spagnola che mobilitò i cattolici a fianco del nazismo e del fascismo, in appoggio al generale Francisco Franco, ribelle al legittimo governo repubblicano, per odio contro il bolscevismo e per l’orrore delle uccisioni di religiosi. Il secondo evento fu la guerra d’Etiopia: il mondo cattolico tradizionalmente sensibile ai temi della diffusione del Vangelo anche sulla scia delle armi, rispose con entusiasmo all’appello del fascismo per un sostegno alla guerra, presentata come una lotta contro un popolo di barbari infedeli.
Nel 1938, infine, la prova più dura: con la proclamazione delle leggi per la difesa della razza la Chiesa e i cattolici furono posti di fronte a un scelta che metteva in gioco valori di umanità. Come in tutte le culture europee, presso i cattolici, che vedevano negli ebrei il “popolo deicida”, serpeggiava un antiebraismo cattolico di stampo teologico che nel periodo fascista tendeva riemergere. Tuttavia, di fronte a leggi che tra l’altro ponevano in discussione la validità dei matrimoni religiosi tra ariani ed ebrei convertiti, la Chiesa vide minacciata una prerogativa che il Concordato le assegnava: solo ai tribunali ecclesiastici competeva lo scioglimento o l’annullamento dei matrimoni religiosi. Nel marzo 1937 l’enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI aveva condannato il razzismo nazista, senza però menzionare gli ebrei. Di fronte alle leggi fasciste gli esponenti delle clero si limitarono ad auspicare che il governo italiano non seguisse l’esempio nazista e che soprattutto non mettesse in discussione la posizione degli ebrei convertiti. Dal canto suo il papa Pio XI stava forse preparando una più energica enciclica di condanna del totalitarismo nazista e fascista, ma morì prima di portare a termine l’impresa; che il suo successore Eugenio Pacelli, col nome di Pio XII, lasciò prudentemente cadere di fronte alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

6. Le opposizioni antifasciste nell’esilio e nella cospirazione

L’opposizione al fascismo in Italia fu diffusa, secondo le memorie e la documentazione costituita dalle denunce e dai processi, quasi solo tra classi popolari e presso gruppi intellettuali. Serpeggiò invece a tutti i livelli della società una forma di malcontento, di generica mormorazione che non divenne scelta dichiarata e attiva, se non al momento della sconfitta militare. Tale clima di dissenso perpetuo, ma innocuo, alimentò, dopo la caduta del regime, le illusioni di quanti sostennero l’estraneità dell’intera società rispetto al regime fascista.
Nella sua gran maggioranza il Paese accettò di fatto la dittatura, e pur deprecandone le forme più grossolane e ridicolizzando gli aspetti grotteschi della sua propaganda, restò contagiato dalla sua ideologia e dalla sua cultura. Dopo che il fascismo si fu insediato al potere e dopo la crisi provocata dall’assassinio di Giacomo Matteotti e la fallimentare esperienza dell’Aventino, gli oppositori più esposti furono costretti all’esilio: i capi delle formazioni di sinistra e gran numero di militanti anarchici, personalità quali Filippo Turati, Claudio Treves e Piero Gobetti, nonché i dirigenti del Partito Comunista d’Italia – PCd’I. Analoga vicenda vissero taluni esponenti del mondo liberale o del Partito Popolare Italiano (PPI). La meta di questo esilio fu la Francia sia per la disponibilità del Paese e del governo radical socialista di quei primi anni sia per la speranza di trovare nella capitale francese una tribuna internazionale per denunciare la violenza del fascismo. Non era estranea anche l’illusione di un rapido crollo del regime sotto il peso della precaria situazione economica. All’emigrazione delle élites politiche si aggiunse anche un’emigrazione popolare di origine politica causata dalle persecuzioni fasciste contro i singoli militanti che non si fossero piegati alla prepotenza delle squadre d’azione.
Nell’esilio si ricostituirono i partiti politici sciolti in Italia (con l’eccezione del PPI): questi diedero vita alla Concentrazione di azione antifascista, il cui programma per molti aspetti rifletteva i limiti dell’Aventino. Il PCd’I si mantenne estraneo alla Concentrazione, verso la quale fu sviluppata una forte critica da parte di gruppi di giovani antifascisti in Italia, riuniti attorno alla rivista “Quarto Stato”, e da parte del movimento Giustizia e Libertà promosso da Carlo e Nello Rosselli. La Concentrazione nel 1934 si dissolse sotto la pressione di nuove prospettive internazionali.
La ridefinizione dei rapporti politici fra le varie forze fu considerevole in quella metà degli anni ’30: socialisti e comunisti stabilirono una linea comune con il PCd’I, sulla base della politica dei Fronti Popolari (VII congresso della III Internazionale comunista). Questa svolta interessò anche tutte le altre forze antifasciste, in quanto dava nuovo valore alla comune conquista di un regime democratico. Il terreno di prova delle prospettive unitarie fu l’impegno al momento dell’esplosione della guerra civile spagnola. Da tutti i Paesi d’Europa e dell’America convennero militanti disposti a battersi contro la minaccia fascista, resa quanto mai evidente dall’impegno militare di Germania e Italia a sostegno di Franco. Per gli italiani fu la prima occasione di scontro armato con il fascismo.
In Italia la situazione era tuttavia assai difficile. Alla metà degli anni ’30 fu smantellata la rete cospirativa del PCd’I e quella dei socialisti. In campo cattolico il solo tentativo di organizzazione politica fu l’isolato Movimento Guelfo d’Azione, il cui principale ispiratore fu Piero Malvestiti, processato nel 1934 assieme ad altri collaboratori. Nell’Azione Cattolica e in particolare nella FUCI, dopo il conflitto del 1931, fu cautamente avviata un’opera di ripensamento e di elaborazione intellettuale da cui emerse alla fine degli anni ’30 un antifascismo di matrice religiosa.
L’antifascismo organizzato alla vigilia della guerra era quindi in condizioni di estrema debolezza; e solo con grande fatica riuscì a emergere come forza decisiva nella crisi italiana del 1943.

7. Gli alleati infidi

L’Italia fascista e la Germania nazista, pur alleate, ebbero una storia di rapporti tutt’altro che semplici in cui si mescolarono la spregiudicatezza di Hitler e il rancore di Mussolini. Sul piano ideologico i due regimi condividevano certamente il modello del totalitarismo, ma ciascuno di essi poneva in rilievo alcuni elementi che lo distinguevano dall’altro. In Italia i fascisti sottolineavano come il fascismo ponesse fortemente l’accento sulla centralità dello Stato e della sua autorità, mentre il nazismo fondava la propria dottrina su elementi legati alla comunità, al popolo e alla razza, che trovavano la sintesi nel culto del Führer. Sul piano politico le due nazioni condividevano poche tradizioni: erede del militarismo degli junker il Terzo Reich aspirava a liberarsi dell’umiliante eredità della sconfitta del 1918; mentre l’Italia fascista rivendicava come mito fondante proprio la vittoria nella Prima Guerra Mondiale. Anche gli obiettivi di espansione economica non andavano d’accordo. L’Italia aveva contato di assumere un ruolo determinante nei Balcani anche attraverso la penetrazione economica, ma a partire dal 1936 era stata scalzata dall’iniziativa tedesca.
Tatticamente il Führer si era mostrato più scaltro di Mussolini: nelle more della politica dell’appeasement sviluppata da Francia e Inghilterra nell’ultimo scorcio degli anni ’30, la Germania si era assicurata via libera per l’annessione dei Sudeti, prologo allo smembramento della Cecoslovacchia, attuato nel marzo 1939 con l’occupazione della Boemia e della Moravia. La mossa tedesca fu compiuta senza avvisarne l’Italia proprio mentre le due potenze erano impegnate in colloqui per la definizione formale dell’alleanza, poi ampliata al Giappone. L’occupazione tedesca delle due regioni europee orientali provocò la rivalsa di Mussolini che diede il via all’occupazione dell’Albania. Un ulteriore motivo di frizione fu rappresentato anche dal problema delle minoranze tedesche nel Tirolo meridionale (battezzato Alto Adige dopo la conquista, alla fine della Prima Guerra Mondiale). La questione altoatesina fu risolta con un accordo (1939) che prevedeva per i sudtirolesi la possibilità di scegliere se restare in Italia o trasferirsi in paesi dell’area tedesca, dove Hitler si impegnava ad accoglierli.

 

 

 

 

 

 

 

Tensioni quindi ricorrenti e accordi di dubbio valore: al punto che, meno di quattro mesi dopo la stipula del cosiddetto Patto d’Acciaio, l’Asse Roma-Berlino siglato a Berlino il 22 maggio 1939, sottoscritto dall’Italia con l’esplicita riserva che la guerra non sarebbe scoppiata prima del 1942-1943 al fine di completare la propria preparazione militare, Hitler decise l’invasione della Polonia, aprendo il Secondo conflitto mondiale. Sorpreso ancora una volta dalla spregiudicata iniziativa nazista, ma posto di fronte al fatto compiuto, a Mussolini non restò altro che la scappatoia di dichiarare la non belligeranza italiana.